Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
G. Giappichelli Editore

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Note in tema di responsabilità civile dell'avvocato (di Giuliano Scarselli (Ordinario di Diritto processuale civile Università di Siena))


SOMMARIO:

1. Le norme sulla responsabilitą civile dell'avvocato - 2. La necessitą di distinguere l'avvocato d'affari dal difensore in senso tradizionale - 3. Segue) Le differenze tra l'una e l'altra attivitą forense - 4. Segue) E le conseguenze in punto di responsabilitą - 5. La responsabilitą civile del difensore per l'infrazione delle norme deontologiche - 6. La vicenda di cui alle Sezioni Unite Cass. n. 2681/2007 - 7. La responsabilitą contrattuale per violazione della norma deontologica - 8. Segue) E la responsabilitą extracontrattuale per la violazione della norma deontologica


1. Le norme sulla responsabilitą civile dell'avvocato

Le fonti normative della responsabilità civile dell’avvocato si rinvengono negli artt. 1176, 2° com­ma e 2236 c.c. [1]. La prima disposizione, dopo aver affermato che nell’adempiere all’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia, statuisce che «nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata»; e la seconda disposizione aggiunge che «se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave». Dal combinato disposto di queste norme si ricava che l’avvocato incorre in responsabilità civile quando, nell’esercizio del suo ministero, non usa la normale diligenza (art. 1176 c.c.), e tuttavia non è tenuto al risarcimento del danno se il suo comportamento non è riconducibile ad una condotta dolosa o gravemente colposa (art. 2236 c.c.), e sempre che la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Più esattamente, gli orientamenti giurisprudenziali in materia precisano quanto segue: a)  in primo luogo che l’azione di risarcimento del cliente contro l’avvocato inadempiente «presuppone la prova del danno» [2] che, in base ai criteri generali dell’onere della prova, deve essere data da chi agisce in giudizio per ottenere un simile risultato [3]. b)  In secondo luogo che tra la condotta tenuta dall’avvocato e il danno subito dal cliente deve sussistere un nesso di causalità che «in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici [4], si accerti che, senza quell’omissione (o quella azione), il risultato sarebbe stato conseguito» [5]. c)  In terzo luogo oggi la giurisprudenza asserisce (seppur in passato gli orientamenti sono stati differenti) [6] che il danno risarcibile si identifica e si quantifica sotto il profilo della perdita di probabilità o di chance [7], secondo un ragionevole apprezzamento [8] che «implica la valutazione positiva che alla proposizione di una diversa azione, o al diligente comportamento [continua ..]


2. La necessitą di distinguere l'avvocato d'affari dal difensore in senso tradizionale

La giurisprudenza ha fatto bene in numerosissimi casi a dichiarare la responsabilità dell’avvo­cato e a condannarlo al relativo risarcimento dei danni, poiché, al di là dei principi di diritto che le decisioni dei casi appena visti hanno scaturito, vi sono stati, nelle realtà concrete delle fattispecie in questione, fatti di grave responsabilità, ove gli avvocati hanno violato le più elementari regole professionali, ed hanno commesso gravi negligenze e incurie nella gestione del mandato a loro affidato. È interesse di tutti i cittadini in primo luogo, ma poi anche della classe forense in secondo luogo, che l’esercizio dell’attività di avvocato sia esercitata con perizia e professionalità (aggiungerei anche con passione, dedizione e senso del dovere), e che siano esecrati e puniti quei casi che non solo arrecano danno allo sventurato di turno, ma anche offuscano dinanzi all’opinione pubblica l’immagine del difensore, e il ruolo che questi ha all’interno della funzione giurisdizionale. Detto ciò (e quindi escluso che ancora oggi possano esser guardati con nostalgia vecchi e superati orientamenti della giurisprudenza secondo i quali l’avvocato non potrebbe mai essere condannato al risarcimento dei danni in quanto «la valutazione di tale responsabilità dovrebbe basarsi su considerazioni meramente ipotetiche») vanno però, a mio parere, date alcune puntualizzazioni. E la prima credo debba avere ad oggetto l’esigenza di separare i casi nei quali l’avvocato svolge, al pari di altri professionisti, attività meramente stragiudiziali (assistendo il cliente nella redazioni di contratti, testamenti, regolamenti, statuti, oppure formulando pareri, od ancora assistendolo in assemblee, adunanze, consigli, comitati, ecc.) da quelli nei quali viceversa svolge attività difensiva dinanzi ad un giudice o ad altro organo esercente una funzione giurisdizionale Questa contrapposizione, del resto, è già stata recepita dal nostro sistema, visto che si trova nella disciplina in materia di antiriciclaggio di cui al d.lgs. 20 febbraio 2004, n. 56 e al decreto di attuazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze 3 febbraio 2006, n. 141, ed in quella relativa al trattamento dei dati personali di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 [16]. In entrambi i casi le normative prevedono che gli [continua ..]


3. Segue) Le differenze tra l'una e l'altra attivitą forense

Ma, dal punto di vista della responsabilità, quali possono essere queste differenze? a) La prima a me sembra essere questa: che, mentre altri professionisti (si pensi al medico, al­l’ingegnere, al contabile), se applicano correttamente le regole della propria scienza, non possono che ottenere quel risultato che la loro scienza considera, cosicché, salvo ipotesi del tutto eccezionali, il risultato del loro lavoro può essere valutato e considerato in senso obiettivo, il risultato del lavoro dell’avvocato non può essere considerato in senso obiettivo, poiché il responso di esso non è dato da una valutazione obiettiva e scientifica, ma dal parere di un essere umano, che è il giudice, e che, a sua volta, potrebbe commettere un errore. Normalmente per il medico, l’ingegnere, il contabile, il mancato risultato è conseguenza dell’errore professionale; per l’avvocato, al contrario, anche se può essere così, non necessariamente il mancato risultato è conseguenza dell’errore professionale, poiché esso può invece, solo e soltanto, dipendere dall’errore di giudizio del giudice. In sostanza, mentre il risultato del lavoro degli altri professionisti dipende dalla scienza, il risultato del lavoro dell’avvocato dipende dal giudice, che pure è un professionista. È questa, anche, la maggiore difficoltà della professione dell’avvocato rispetto alle altre: poiché, mentre il medico, l’ingegnere, o il contabile più bravo non possono che ottenere i migliori risultati, non così è per l’avvocato, poiché anche quello “bravissimo” potrebbe non ottenere risultati utili, visto che tutto è “relativizzato” dall’esito di un giudizio umano. b) La seconda differenza consiste poi nella diversa struttura della scienza, se così mi è consentito di dire. Mentre il medico, l’ingegnere, o il contabile (o gli altri professionisti che possono venire in mente: l’agronomo, il geologo, il chimico, ecc.) hanno a che fare con una scienza tendenzialmente esatta, che certamente consente valutazioni di opportunità, ma che pur sempre risponde a criteri obiettivi, la scienza giuridica è quanto di più relativo possa esistere, assomiglia molto più ad un’arte che non ad una scienza, [continua ..]


4. Segue) E le conseguenze in punto di responsabilitą

Che conseguenze ha tutto questo? A mio parere ne ha una più generale e una più attinente al tema che stiamo trattando. a) In via generale è solo parzialmente corretto (per non dire che è scorretto) accumulare allora la professione del difensore alle altre professioni. Non solo, infatti, il lavoro dell’avvocato-difensore è diverso perché attiene ad un bene fondamentale della vita che è garantito costituzionalmente ed ha ad oggetto la collaborazione nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ma anche, e forse soprattutto, perché l’attività di difesa possiede le peculiarità che sopra abbiamo sinteticamente riportato, e che fanno di essa qualcosa di unico, e non assimilabile a nessun altro tipo di lavoro professionale. b) La seconda conseguenza attiene proprio alla responsabilità., poiché mentre, senz’altro, una lettura piana e grigia degli artt. 1176, 2° comma e 2236 c.c. può darsi con riferimento all’av­vocato d’affari, con riguardo all’avvocato-difensore è probabilmente necessaria una lettura più attenta e specifica delle norme che disciplinano la responsabilità civile della sua attività professionale. Normalmente, infatti, la giurisprudenza ha tenuto conto di questo, limitando i casi di condanna e di accertamento delle responsabilità per gli avvocati-difensori a fattispecie di solare evidenza. Nessuna critica all’operato dei giudici, che anzi, in passato, sono stati (forse) troppo permissivi. Si vuole solo ricordare che nell’accertamento della responsabilità professionale di un avvocato che abbia svolto attività di difesa giudiziale la prudenza è d’obbligo, poiché tutti gli elementi di relatività che caratterizzano la sua professione, non possono poi non essere anche tutti elementi di relatività che caratterizzano la sua responsabilità.


5. La responsabilitą civile del difensore per l'infrazione delle norme deontologiche

Se questo da una parte è vero, dall’altra deve essere parimenti vero che l’avvocato deve rispondere civilmente nelle ipotesi di infrazione delle norme deontologiche [19]. Ed infatti, in conseguenza della decisione delle S.U. 20 dicembre 2007, n. 26810 [20] il rapporto tra responsabilità deontologica e responsabilità civile assume connotati nuovi, sui quali è necessaria una riflessione. Precedentemente, i rapporti tra le due responsabilità si potevano configurare nei termini di una netta separazione, e ciò nel senso che l’illecito deontologico non si poteva considerare, di per sé, anche illecito civile, e poteva essere tale solo nelle ipotesi in cui in concreto, e caso per caso, il fatto avesse comportato anche la violazione di una norma dell’ordinamento civile [21]. In questi casi, e solo in questi casi, dall’illecito seguiva per l’autore tanto una responsabilità civile quanto una responsabilità deontologica. Ma se l’illecito deontologico non arrivava a costituire anche illecito civile, dal fatto, al contrario, non poteva che discendere la sola responsabilità deontologica, con esclusione di ogni possibile, contestuale, giudizio civile di responsabilità. Ora, i termini della questione appaiono un po’ mutati a seguito della decisione delle Sezioni Unite sopra richiamate, in quanto queste hanno affermato che le norme del codice deontologico forense sono fonti normative e non soltanto regole interne della categoria, e/o espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini. Cosicché, se la loro violazione è la violazione di una “fonte normativa”, e non solo più violazione di una sola “regola interna della categoria” [22], è evidente che ogni loro infrazione è sempre anche l’infrazione di un precetto giuridico, e quindi sempre anche un illecito civile. Ed è evidente che il passaggio della qualificazione della norma deontologica da “regola interna della categoria” a “fonte normativa” non è privo di conseguenze, e va attentamente valutata per le potenzialità che essa ha di estendere il campo della responsabilità civile dell’avvocato.


6. La vicenda di cui alle Sezioni Unite Cass. n. 2681/2007

Conviene fare un passo indietro e tornare al caso che ha generato le Sezioni Unite Cass. n. 26810/2007. Un avvocato, difensore di un creditore titolare di più cambiali, notifica al debitore non già un u­nico atto di precetto relativo alle cambiali in possesso del suo cliente, bensì più atti di precetto, ognuno per ogni cambiale. A detto difensore, pertanto, viene aperto un procedimento disciplinare per la violazione del­l’art. 49 del codice deontologico forense, ovvero per violazione di quella disposizione che vieta aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria delle controparti. Il legale si difende ritenendo che al caso di specie non possa applicarsi l’art. 49 del codice deontologico. La questione arriva fino alla Corte di Cassazione e la Cassazione, prima ancora di stabilire se al fatto può essere applicato o meno l’art. 49 del codice, deve stabilire la natura di detta norma, anche ai fini dell’ammissibilità della questione sotto il profilo dell’art. 360 n. 3 c.p.c. E la Cassazione asserisce, appunto, che il codice deontologico, e quindi anche l’art. 49, è fonte normativa integrativa di precetto legislativo, che attribuisce da una parte al consiglio nazione forense il potere disciplinare in sede giurisdizionale, e dall’altra parte alla Corte di Cassazione la possibilità di interpretare direttamente tali norme quale giudice della legittimità. In forza di questa pronuncia, pertanto, è possibile fissare due punti: a) il primo è che le norme del codice deontologico non sono più, o non sono più soltanto, una regolamentazione interna vincolante per la sola categoria, ma costituiscono viceversa fonte di diritto a tutti gli effetti, ed in particolare esse possono svolgere la funzione di integrazione di norme legislative in bianco, o relative a clausole elastiche; b) ed il secondo è che l’interpretazione e l’applicazione del codice deontologico forense costituisce attività di applicazione del diritto, cosicché su detta applicazione può esser proposto ricorso per cassazione ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione o falsa applicazione di norme. Da qui, però, per teorizzare in via generale che la responsabilità deontologica è sempre anche responsabilità civile occorre compiere un ulteriore passo, e si [continua ..]


7. La responsabilitą contrattuale per violazione della norma deontologica

Circa la sussistenza di una responsabilità contrattuale in presenza della violazione di una norma deontologica, non dovrebbero più sussistere dubbi [23]. Se, infatti, in base alla legge, il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1373 c.c.), e l’obbligazione va adempiuta usando la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176 c.c.), e l’obbligato (rectius: l’avvocato) deve comportarsi secondo correttezza (art. 1175 c.c.) [24], e se, come ha precisato la Cassazione, le norme deontologiche integrano tali clausole generali e/o elastiche, va da sé che la violazione deontologica comporta la violazione di dette norme, in quanto la norma deontologica non è altro che il contenuto specifico della disposizione di legge generica [25]. Ovviamente, non una qualsiasi violazione del codice deontologico forense può costituire per l’avvocato responsabilità contrattuale bensì solo quelle che possano considerarsi in connessione con il mandato ricevuto [26]; ma se la connessione sussiste, e la norma deontologica è stata violata, automaticamente il comportamento tenuto può esser considerato fonte di responsabilità contrattuale. Né a ciò può obiettarsi che possono sussistere obblighi deontologici di così scarsa rilevanza, o di così poca consistenza, da non poter, da soli, comportare per l’avvocato inadempimento contrattuale (ma solo, appunto, e se del caso, responsabilità deontologica dinanzi agli organi di disciplina). Al contrario, nel momento in cui si attribuisce alle norme deontologiche valore di norme giuridiche, e nel momento in cui l’avvocato deve adempiere al mandato ricevuto nel rispetto dell’ordinamento inteso come rispetto della legge e di ogni altra fonte di diritto, ne segue che l’assunzione dell’incarico comporta automaticamente anche l’assunzione del dovere di rispettare la deontologia professionale; cosicché il mancato rispetto di un qualunque precetto deontologico che abbia connessione con l’attività da svolgere, comporta infrazione ai doveri assunti con il cliente, e conseguentemente fa seguire la responsabilità civile.


8. Segue) E la responsabilitą extracontrattuale per la violazione della norma deontologica