Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
G. Giappichelli Editore

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La crisi delle relazioni familiari: come sostenere e tutelare i protagonisti rendendoli consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri (di Alessandro Sartori (Avvocato in Verona, Presidente AIAF Veneto))


SOMMARIO:

1. La sfida etica - 2. L'importanza di elaborare un nuovo progetto di vita - 3. La metafora della Porta e della Soglia - 4. Le strategie per calmierare le sofferenze - 5. L'intrigante fascino del nostro maggiore impegno professionale - NOTE


1. La sfida etica

Il sottotitolo di questa riflessione sull’affascinante e intrigante compito che ci è posto da coloro che si affidano alla nostra capacità e alla nostra esperienza professionale completa il già ampio tema che mi è stato assegnato. Entriamo subito nel vivo della riflessione ricordando, anzitutto, che: la “Sfida Etica” di un corretto approccio deontologico al contenzioso familiare ha suggerito il contenuto di uno dei più preziosi “Quaderni” pubblicati dall’AIAF [1], che ogni iscritto dovrebbe tenere “sotto mano” per la ricchezza e profondità dei contributi che lo compongono. Il Prof. Avv. Paolo Moro nella sua riflessione in quel “Quaderno” sull’“Etica e il metodo del­l’avvocato”, esordiva chiarendo che l’«etica è una metodologia dell’esperienza professionale» ed affermava che «l’etica professionale dell’avvocato si realizza attraverso un atteggiamento dinamico di critica, di dialogo, di giustificazione e di mediazione nei rapporti con il cliente, con l’avversa­rio, con il collega e con il giudice». Attraverso tale “mediazione dialogica” l’avvocato realizza la «fedeltà al proprio assistito e all’ordi­namento giuridico (principio della doppia fedeltà)», adempiendo così al “dovere di lealtà”. Sempre secondo il Prof. Moro il «fine dell’attività professionale dell’avvocato ... è la tutela della libertà propria e del proprio assistito» e, per realizzare tale fine, l’avvocato si deve opporre al­l’asettico tecnicismo della professione forense non limitandosi «ad essere interprete formalista delle norme di legge oppure dei precedenti giurisprudenziali deducendo da questi gli unici criteri» a sostegno della “libertà” del proprio assistito.


2. L'importanza di elaborare un nuovo progetto di vita

Questo impegno dinamico di “mediazione dialogica” e di “tutela della libertà” del proprio assistito è stato ben espresso dalla nostra cara Milena nel suo scritto su Cultura della mediazione e gestione del conflitto familiare da parte dell’avvocato [2], in cui, dopo aver ricordato il ruolo fondamentale dell’avvocato per una positiva (o fallimentare) gestione del conflitto, metteva in giusto risalto l’importanza di una «negoziazione finalizzata ad un accordo di separazione consensuale» che, però, «può essere rispettato dalle parti e durare nel tempo solo se corrisponde alle esigenze future delle parti e non tanto alle esigenze dettate dal loro passato». Compito, dunque, di avvocati saggi e specializzati è quello di impegnarsi a favorire nei loro assistiti un processo di liberazione dai condizionamenti del passato ed aiutarli ad elaborare un nuovo progetto di vita.


3. La metafora della Porta e della Soglia

Mi è parso interessante, allora, indagare la metafora della “Porta”, della “Soglia” da utilizzare per accompagnare, guidare, la parte in stato di disagio e di crisi a liberarsi dal suo passato per cogliere la sua “profezia”, la sua proiezione verso il futuro. La “Porta” richiama il fatto che l’uomo non è un essere chiuso in se stesso, ma aperto alla realtà. La “Porta” segna la soglia tra interiorità ed esteriorità, tra soggetto e oggetto (ciò che sta di fronte al soggetto), tra l’io e il tu, e poi tra l’io e il noi. La “Porta” richiama anche il fatto che l’uomo è per natura un essere ospitale. «Ecco io sto alla porta e busso, se qualcuno ode la mia voce ed apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui e egli con me» [3]. Egli, l’uomo, ha la capacità di ospitare l’essere, non attraverso un processo di omologazione, di assorbimento e di assimilazione, ma attraverso la relazione. In quanto essere aperto alla relazione, il modus essendi dell’uomo diventa personale. Egli è sempre qualcuno e mai solo qualcosa. La differenza tra l’essere qualcuno e l’essere qualcosa è una differenza qualitativa e non soltanto quantitativa [4]. Tale differenza può essere colta non dalla ragione calcolante, oggi imperante nelle scienze sperimentali, ma dalla ragione sapienziale. L’uomo, anche se può essere analizzato come oggetto di indagine, tuttavia non è un oggetto tra gli oggetti, manipolabili e utilizzabili, ma è sempre un soggetto che ha la capacità di entrare, appunto, in relazione con altri soggetti attraverso la parola. L’uomo è l’essere del logos, della conoscenza ospitale. Vorrei farvi venia dal ricordare che la civiltà greca, che è stata la prima civiltà occidentale che si è posta il problema dell’uomo e della sua dignità, ha dato molteplici risposte alla domanda “chi è l’uomo”, ma essenzialmente sempre nella direzione della sua trascendenza rispetto all’essere materiale: PLATONE lo collocava nel regno delle idee, dello spirito materiale, incorruttibile e immortale, purtroppo imprigionato ed esiliato in un corpo finito; ARISTOTELE definiva l’uomo un [continua ..]


4. Le strategie per calmierare le sofferenze

Se ci siamo, allora, avvicinati alla “soglia” dell’uomo e della sua dignità, ci sarà più agevole interloquire con i protagonisti di una crisi familiare e condividere le “strategie per calmierare le sofferenze” della loro incertezza rendendoli maggiormente consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri.   a) L’abbandono dell’idea di conflitto Anzitutto facendoli convinti dell’opportunità di abbandonare l’idea del conflitto, abbandono tanto Anzitutto facendoli convinti dell’opportunità di abbandonare l’idea del conflitto, abbandono tanto più accettabile se si praticherà un corretto inquadramento tecnico-giuridico del loro caso rendendoli senz’altro consapevoli, ad esempio, della ormai sempre più evidente inutilità di cercare a livello giudiziario soddisfazione nell’addebito della responsabilità della separazione. È a tutti noi ben noto che una tale domanda, salvo casi clamorosi, è disattesa dalla giurisprudenza implicando una ricerca che si perde nei meandri dei comportamenti e degli atteggiamenti delle parti che possono aver causato progressivamente l’intollerabilità della loro convivenza.   b) Il confronto leale sulle questioni economiche Secondariamente stimolando un leale confronto sulle questioni economiche, senza favorire (o, addirittura, stimolare) sotterfugi per vanificare il dovere di stabilire corrette determinazioni contributive sia per chi deve dare, che per chi deve ricevere. Taluno tra noi potrebbe pensare che sia nostro compito difendere la parte che assistiamo facendo ottenere la maggior soddisfazione economica possibile, in un senso (dare) o nell’altro (ricevere) e, certo, ciò rientra nei nostri doveri di tutela, ma non violando (o facendo violare) i correlati doveri di lealtà, probità, quando non quello di verità di cui all’art. 14 del Codice Deontologico. Chiarezza e precisione sui rispettivi diritti e doveri contributivi sono fondamentali per disinnescare il conflitto. È nostro dovere fare quanto possibile per favorire intese anche chiarendo quale sia la miglior soluzione economica da adottare in modo da consentire di “agganciare” la parte a riflessioni più miti e conciliative, anche ricorrendo all’aiuto di un Collega terzo.   c) La capacità di [continua ..]


5. L'intrigante fascino del nostro maggiore impegno professionale

In questo modo (e in molti altri che la nostra sensibilità ci suggerirà) riusciremo a vincere la “sfida etica” di un corretto approccio deontologico di cui accennavo in esordio e saremo riusciti ad adottare strategie efficaci per calmierare quella “sofferenza dell’incertezza” che ha portato i protagonisti di una crisi familiare a cercare conforto nella nostra assistenza professionale. Ci viene, certo, richiesto uno sforzo maggiore, ma tutti noi credo proprio, si sia convinti del dovere (in verità: piacere) di continuamente evolverci nel nostro impegno di professionisti affascinati dal continuo mutare delle sollecitazioni che ci provengono per affrontare la sofferenza degli utenti dei nostri servizi. Dobbiamo essere pronti a cogliere l’intrigante fascino del sempre maggiore impegno che ci viene richiesto. Per esserlo ancor più, ecco l’occasione di adottare “buoni propositi”, di farci, come ci si richiedeva nell’infanzia, delle “promesse”, ricordando con il “TALMUD” [7] che «I giusti promettono poco e fanno molto; gli empi, invece, promettono troppo e non fanno nulla». E sarà la promessa di tutti noi quella di caricarci umilmente sulle spalle la diversità di ogni caso che ci sia affidato per tenere conto del “Mistero dell’uomo” della storia di ciascuno e talora della nostra insufficienza per riconoscerci strumenti di ausilio alla sofferenza. E nel far questo, nell’accompagnare (o, almeno, nel tentare di accompagnare) chi ci si affida alla soglia della “conoscenza ospitale”, non dimentichiamo di metterci “amore”, il nostro “soffio spirituale”, senza ridurci ad una routine avvilente l’importante ruolo che ci viene ogni volta affidato, tenendo, invece, ben a mente col “Profeta”: «Che la vita è oscurità se non vi è slancio; e ogni slancio è cieco se privo di sapienza, e ogni sapienza è vana senza agire, e ogni azione è vuota senza amore, e lavorare con amore è un vincolo con gli altri, con noi stessi e con Dio».


NOTE