Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
G. Giappichelli Editore

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I "correttivi" alla l. n. 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita ad opera della giurisprudenza costituzionale (di Luca Varrone (Magistrato addetto all’ufficio del Ruolo e del Massimario della Corte di Cassazione e assistente di studio della Corte costituzionale))


SOMMARIO:

1. La natura necessaria dal punto di vista costituzionale della l. n. 40/2004 - 2. Il bilanciamento ad opera della Corte costituzionale della tutela dell'embrione con altri beni e valori costituzionali e in particolare con la tutela della salute "fisica" della donna - 3. Il progressivo superamento dei problemi legati ai limiti soggettivi di accesso alle tecniche di PMA e alla diagnosi preimpianto - 4. L’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa - 5. (Segue). La sua irragionevolezza intrinseca - 6. Conclusioni - NOTE


1. La natura necessaria dal punto di vista costituzionale della l. n. 40/2004

La l. 19 febbraio 2004, n. 40, recante “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita” è una delle più controverse leggi approvate dal Parlamento negli ultimi 20 anni. Nel corso dell’iter della sua approvazione sono state innumerevoli le polemiche, i dubbi e le critiche che hanno caratterizzato il dibattito dal punto di vista politico-sociale. Polemiche e critiche che, anche dopo la definitiva approvazione, sono continuate in modo particolarmente acceso, convertendosi in interpretazioni volte all’utilizzo di tutti gli strumenti giuridici che l’ordi­namento offre per opporsi ad una legge ritenuta errata o incostituzionale. Dapprima sono stati proposti cinque quesiti referendari [1], di cui quattro per l’abrogazione di alcuni degli articoli che disciplinavano i punti più controversi della riforma e uno per l’abroga­zione dell’intera legge. A seguito del fallimento dei referendum, l’interpretazione delle questioni controverse si è trasferita nelle aule di giustizia e, segnatamente, in quelle della Corte costituzionale e della Corte dei Diritti dell’Uomo, oltre che nelle aule dei Tribunali mediante lo strumento, sempre più in espansione, dell’interpretazione adeguatrice. Oggi, dopo poco più di un decennio, è possibile trarre un primo bilancio complessivo della l. n. 40/2004. In primo luogo deve evidenziarsi che si tratta della prima disciplina organica che nel nostro paese regola la complessa materia della procreazione medicalmente assistita; materia che, indubbiamente, coinvolge una pluralità di interessi costituzionali particolarmente rilevanti, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento in grado di assicurare un livello minimo di tutela legislativa, tanto più che la materia è soggetta a una continua evoluzione correlata allo sviluppo della ricerca e delle tecniche mediche [2]. Oggi certamente si può affermare che è stato in parte superato l’impianto originario caratterizzante la legge che si fondava sulla equiparazione dell’embrione alla “persona già nata” e sulla conseguente predisposizione di una tutela tale da sacrificare ogni altro bene o valore coinvolto, anche se di rilievo costituzionale. L’“eccesso di tutela” rigida e non “bilanciabile” dell’embrione aveva [continua ..]


2. Il bilanciamento ad opera della Corte costituzionale della tutela dell'embrione con altri beni e valori costituzionali e in particolare con la tutela della salute "fisica" della donna

Come si è detto la l. n. 40/2004 ha comunque subito una trasformazione ad opera della giurisprudenza costituzionale europea e di merito. Una graduale e continua metamorfosi della disciplina quale risultato di plurimi tentativi di bilanciamento tra opposte esigenze di rilievo costituzionale. Si è anche detto che alcune prescrizioni erano apparse subito poco ragionevoli [5], come l’obbligo di impiantare in un’unica operazione un numero massimo di tre embrioni. L’art. 14 della l. n. 40/2004, infatti, testualmente prevedeva «Le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tecnico-scientifica e di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre. Qualora il trasferimento nell’utero degli embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione è consentita la crioconservazione degli embrioni stessi fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile». Al divieto di soppressione e di crioconservazione degli embrioni si affiancava il divieto di creazione di embrioni c.d. soprannumerari al fine di scongiurare un loro eventuale sacrificio, a que­st’ultimo divieto si associava poi l’obbligo di un unico e contemporaneo impianto. L’autoriz­zazione alla crioconservazione rappresentava un’ipotesi eccezionale, configurabile esclusivamente nel caso di impossibilità di trasferimento degli embrioni a causa di gravi motivi di forza maggiore relativa alla stato di salute della donna, comunque imprevedibile al momento della fecondazione [6]. In effetti il divieto assoluto di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, e comunque superiore a tre determinava in alcuni casi la necessità della moltiplicazione dei cicli di fecondazione, poiché non sempre i tre embrioni eventualmente prodotti risultavano in grado di dare luogo ad una gravidanza. Paradossalmente erano i casi più gravi di sterilità che la legge si prefiggeva di “curare” ad essere particolarmente compromessi dipendendo le possibilità di successo dell’intervento oltre che dalle [continua ..]


3. Il progressivo superamento dei problemi legati ai limiti soggettivi di accesso alle tecniche di PMA e alla diagnosi preimpianto

La possibilità per il medico di decidere il numero di embrioni da produrre per il buon fine della fecondazione e la possibilità di un impianto graduale degli stessi con conseguente possibilità di crioconservazione degli embrioni prodotti e non ancora impiantati ha implicitamente risolto anche un altro dei punti più controversi della l. n. 40 ovvero il divieto della c.d. diagnosi preimpianto [9]. Su tale problematica, infatti, si era aperta un’altra diatriba legale per gli effetti irragionevoli che la norma produceva. Il problema in estrema sintesi era il seguente: le coppie sterili e dunque con accesso alle tecniche di procreazione assistita, che fossero anche portatrici di malattie geneticamente trasmissibili, avrebbero voluto riconosciuta, in primo luogo, la possibilità di effettuare un esame degli embrioni prodotti per la fecondazione tramite il prelevamento di una o più cellule prima del loro impianto nell’utero in modo da accertare, mediante l’analisi genetica dei materiali del nucleo delle cellule prelevate, se uno di questi fosse portatore di (gravi) malattie genetiche, e, in secondo luogo, nel caso del verificarsi di tale sfortunata circostanza, si chiedeva di non impiantare l’embrione portatore della malattia a favore degli altri embrioni che fossero risultati sani. Naturalmente la possibilità di selezionare l’embrione malato non era possibile in presenza del più volte citato art. 14 che obbligava ad un unico e contestuale impianto di tutti gli embrioni prodotti nel numero massimo di tre e che prevedeva, quale unica ipotesi di mancato trasferimento nell’utero della donna dell’embrione prodotto, una sua grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute e non prevedibile al momento della fecondazione. In tale caso la norma consentiva la crioconservazione dell’embrione ma solo fino alla data del trasferimento da realizzare non appena possibile. Ancora prima, tuttavia, si discuteva della possibilità stessa di una diagnosi sull’embrione perché le operazioni necessarie avrebbero potuto danneggiarlo irrimediabilmente. Sulla questione intervennero le «Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», adottate dal Ministro della salute con decreto del 21 luglio 2004, ai sensi dell’art. 7, 1° comma, l. n. 40/2004, [continua ..]


4. L’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa

Si ha fecondazione eterologa quando il seme maschile o l’ovulo femminile non appartengono ad uno dei componenti della coppia ma ad un donatore esterno alla stessa. In altri termini, si deve ricorrere alla fecondazione eterologa quando la patologia di infertilità che affligge uno dei componenti della coppia o entrambi, è tale da non poter essere risolta ricorrendo alle tecniche di procreazione medicalmente assistita con materiale genetico della coppia stessa ma è necessario l’apporto di un terzo soggetto per poter portare a compimento il processo riproduttivo. Prima del divieto introdotto dalla l. n. 40/2004 la fecondazione eterologa era ammessa nel nostro ordinamento [13], e l’assenza di una disciplina aveva determinato alcune storiche pronunce. Una prima della Corte costituzionale che con la sent. n. 347/1998 [14], nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità sollevata in relazione all’art. 235 c.c. che disciplina l’istituto del disconoscimento di paternità, affermò che tale norma «riguarda esclusivamente la generazione che segua ad un rapporto adulterino» e non disciplina quella sostanzialmente diversa del figlio nato da fecondazione assistita. Una seconda pronuncia della Cass. civ., Sez. I, 16 marzo 1999, n. 231 che, confermando l’in­terpretazione del giudice delle leggi, stabilì che «Il marito che abbia validamente concordato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla fecondazione eterologa non ha azio­ne per il disconoscimento della paternità del bambino nato in seguito a tale fecondazione» [15]. La ratio del divieto introdotto dal legislatore nel 2004 sembra doversi individuare nel diritto del nascituro a una famiglia che abbia il suo patrimonio genetico o biologico. Il legislatore del 2004 ha valutato come un disvalore la nascita di un figlio biologicamente e geneticamente appartenente ad uno solo dei componenti della coppia. In tal caso, appunto, si è ritenuto esserci un interesse primario del figlio ad un’identità familiare e alla certezza biologica della genitorialità come «condizione prioritaria per la strutturazione della sua identità personale», perché altrimenti sarebbe destinato a vivere in contesti familiari deteriori rispetto a quelli nati attraverso processi riproduttivi tradizionali. Si [continua ..]


5. (Segue). La sua irragionevolezza intrinseca

Sul tema della regolamentazione della pratica di aggiramento del divieto di fecondazione eterologa mediante il c.d. turismo procreativo si impone un’ulteriore riflessione. La Corte, in questo caso, parla di un ingiustificato diverso trattamento delle coppie afflitte da una patologia di sterilità tale da dover ricorrere alla fecondazione eterologa sulla base della loro capacità economica. In altri termini si dice che è inammissibile l’idea che il divieto di fecondazione eterologa possa essere facilmente eluso da parte di coloro che dispongono dei mezzi necessari per sottoporsi al trattamento in Stati ove lo stesso sia consentito, senza alcuna conseguenza, mentre le coppie senza mezzi economici adeguati devono subire interamente le conseguenze della legislazione italiana. Secondo la Corte in tal modo la disponibilità economica assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale e non come inconveniente di fatto, bensì come diretto effetto delle disposizioni in esame, conseguente ad un bilanciamento degli interessi manifestamente irragionevole. A nostro avviso la Corte non sviluppa fino in fondo il suo ragionamento assolutamente corretto nelle premesse. Naturalmente si tratta solo di un ulteriore motivo di irragionevolezza che si aggiunge a quelli sopra riportati. Se, infatti, il divieto introdotto dal legislatore con l’art. 4, 3° comma, l. n. 40/2009 si fonda sull’esigenza di tutela del nascituro che vedrebbe leso il suo diritto alla genitorialità naturale e alla conoscenza del suo patrimonio biologico, ciò si pone in evidente e insanabile contraddizione con quanto previsto dall’art. 9 della medesima legge che introduce il divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre. L’ultima norma citata prevede che qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’art. 4, 3° comma, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’art. 235, 1° comma, nn. 1) e 2), c.c., né l’impugna­zione di cui all’art. 263 dello stesso codice. Così come la madre del nato a seguito dell’applica­zione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non [continua ..]


6. Conclusioni

Come si è detto in premessa, la disciplina dei fenomeni legati alla procreazione medicalmente assistita è assolutamente necessaria per scongiurare i rischi di uso a fini eugenetici delle conquiste della scienza medica, e anche, ad avviso di chi scrive, per evitare il fiorire di un mercato estre­mamente redditizio di materiale genetico. Nel dichiarare incostituzionale il divieto di eterologa, infatti, la Corte costituzionale ha chiarito che le disposizioni in materia di requisiti soggettivi, modalità di espressione del consenso e documentazione medica necessaria ai fini della diagnosi della patologia e della praticabilità della tecnica, nonché a garantire il rispetto delle prescrizioni concernenti le modalità di svolgimento della PMA ed a vietare la commercializzazione di gameti ed embrioni e la surrogazione di maternità (art. 12, dal 2° al 10° comma, della l. n. 40/2004) sono applicabili direttamente (e non in via d’interpretazione estensiva) a quella di tipo eterologo. Tuttavia è evidente che la varietà dei casi e delle situazioni che possono verificarsi unitamente ai progressi della ricerca scientifica richiedono un continuo adattamento della disciplina. Volendo gettare lo sguardo verso il futuro è già possibile prevedere che ulteriori questioni si por­ranno all’attenzione del giudice delle leggi o della Corte dei Diritti dell’Uomo. È prevedibile che nuove questioni saranno sollevate con riferimento ai limiti soggettivi all’ac­cesso alle tecniche. La sent. n. 162/2014, infatti, prudentemente, ha parlato solo di famiglia e di coppia e ha affermato che «l’illegittimità del divieto non incide sulla previsione recata dall’art. 5, 1° comma, di detta legge, che risulta ovviamente applicabile alla PMA di tipo eterologo (come già a quella di tipo omologo); quindi, alla stessa possono fare ricorso esclusivamente le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entram­bi viventi». Probabilmente, sulla base delle stesse motivazioni della sent. n. 162/2014, presto la Corte sarà chiamata a valutare la ragionevolezza o meno del divieto di accesso alle tecniche anche per la donna single.


NOTE