Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
G. Giappichelli Editore

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I contratti di convivenza (di Alberto Figone (Avvocato in Genova; Direttore scientifico Scuola di alta Formazione AIAF “Milena Pini”))


SOMMARIO:

1. Una premessa - 2. La tutela del soggetto debole alla cessazione della convivenza - 3. I patti di convivenza nella l. n. 76/2016 - 4. Patti di convivenza e patti prematrimoniali - 5. Considerazioni finali - NOTE


1. Una premessa

Da diversi anni si discute in dottrina sull’ammissibilità dei c.d. contratti di convivenza, ossia degli accordi con i quali due partner, prima di iniziare (o nel corso di) una convivenza, disciplinano la gestione della medesima, ma pure le conseguenze di una sua eventuale cessazione [1]. Ci si riferisce ad accordi formalizzati per iscritto di carattere generale e programmatico, elementi che distinguono le pattuizioni, per lo più informali, che i conviventi raggiungono nell’esercizio dell’autonomia negoziale e sulle quali si strutturano di regola i rapporti di coppia (es. in relazio­ne alle ripartizione delle spese correnti per l’amministrazione domestica e il mantenimento dei figli, ecc.). Superfluo ricordare che l’ambito della negozialità va limitato ai soli aspetti patrimoniali, giusta il disposto dell’art. 1322 c.c.; privi di rilevanza giuridica sarebbero così gli accordi con cui i conviventi si impegnassero a prestazioni di carattere personale (ad essere fedeli, amantenere la convivenza almeno per un certo lasso di tempo, ad avere o non avere figli, ecc.). Accordi di tale genere sarebbero ex se nulli e la nullità travolgerebbe anche eventuali clausole penali (come pure premiali), che fossero state previste per il caso di inadempimento (o adempimento) alle specifiche obbligazioni dedotte. Nulle sono anche le clausole con le quali i conviventi avessero a derogare a norme imperative di legge, ad es. gli artt. 147 e 316 bis c.c. sull’obbligo di mantenimento dei figli in base alle sostanze e alla capacità di lavoro di entrambi i genitori, ancorché in questo caso si dovrebbe parlare forse di nullità relativa, in presenza di accordi peggiorativi rispetto al dettato legale.


2. La tutela del soggetto debole alla cessazione della convivenza

Il momento di maggior criticità dei patti di convivenza attiene non tanto al regime della convivenza stessa, quanto alle conseguenze che possono derivare dalla sua cessazione. Ferma restando l’indisponibilità degli obblighi verso eventuali figli (equiparati in toto a quelli nati in costanza di matrimonio, in forza della l. n. 219/2012), la questione si è focalizzata sul sussidio all’ex partner, privo o meno di mezzi adeguati per la propria autosufficienza o per un dato tenore di vita. Come è noto, fino all’entrata in vigore della l. n. 76/2016, (che ha riconosciuto all’ex convi­vente, in stato di bisogno, un assegno di natura alimentare a carico dell’altro), nessun diritto l’or­dinamento riconosceva ai partner al momento della cessazione della convivenza. Semplici impegni o promesse unilaterali, consacrati anche in forma scritta, aventi a oggetto futuri contributi al mantenimento sono stati inquadrati nello schema dell’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., satisfattiva di doveri morali o sociali. Ciò significa che il pagamento eseguito è sorretto da una giusta causa (e, dunque, non è ripetibile), ma l’inadempimento non legittima il creditore ad agire giudizialmente per il recupero. Per superare lo scoglio dell’obbligazione naturale, si è allora evidenziata l’importanza dello schema del contratto a prestazioni sinallagmatiche: il mantenimento futuro da parte del partner “forte” si giustificherebbe così a fronte dei risparmi di spesa, di cui viene a beneficiare la famiglia dalle prestazioni domestiche dell’altro o da una sua compartecipazione ai bisogni comuni. In questo caso il sostegno alla parte più debole al momento della cessazione della crisi, troverebbe la sua causa direttamente nel contratto, comunque rispettoso di principi di tipo etico, con la conseguente trasformazione dell’obbligazione da “naturale” a “civile”. Da una semplice lettura dei dati tratti da internet, risulta che negli ultimi anni siano stati redatti (per lo più da taluni notai, presumibilmente per la aprioristica fiducia che si ripone in un pubblico ufficiale) contratti di convivenza, anche se mancano dati di raffronto sulla tutela “giudiziale” di tali contratti, in caso di inadempimento. Proprio per evitare le eccezioni sempre in agguato [continua ..]


3. I patti di convivenza nella l. n. 76/2016

La l. n. 76/2016, come ben noto, accanto all’introduzione dell’istituto dell’unione civile fra persone dello stesso sesso, ha disciplinato anche le convivenze di fatto. Pressoché unanimi sono state le critiche verso tale modus operandi, che in maniera frettolosa e non giustificata ha ritenuto di regolamentare un modello familiare, già da tempo oggetto di interventi giurisprudenziali e normativi di settore, che hanno conformato la convivenza ed i diritti che in forza di essi competono alle parti. Quel che rileva, ai fini del presente scritto, è rammentare come l’art. 1, 50°-63° comma della nuova legge abbia espressamente riconosciuto ai conviventi di fatto la facoltà (di cui già usufruivano secondo le regole generali) di disciplinare in rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza. L’oggetto specifico di questo contratto, in base al 53° comma, è veramente modesto, riguardando l’indicazione della residenza (intesa come dimora abituale della coppia, ben potendo i conviventi, al pari dei co­niugi, mantenere residenze anagrafiche differenti), le modalità di contribuzione alla vita in comune e l’eventuale scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni. È difficilmente pensabile che una coppia di conviventi decida di aderire alla comunione legale, nella specie per di più non sorretta da quel regime pubblicitario proprio del matrimonio, mentre l’aspetto di contribuzione alle esigenze della famiglia rischia di ridurre l’autonomia negoziale all’individuazione dettagliata di tutta una serie di spese che la vita domestica comune impone, con la specificazione dei criteri di compartecipazione dei partner ad ognuna di esse. Senza contare che la norma richiede espressamente che la contribuzione alle necessità di vita sia effettuata «in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale e casalingo». La previsione è strutturata sulla base dell’art. 143 c.c., afferente i diritti e doveri reciproci dei coniugi. L’autono­mia negoziale dei conviventi verrebbe così ulteriormente compromessa: i conviventi, pur liberi da coartazioni ed in grado ai autogestirsi, non potrebbero dunque prevedere concorsi alle spese in maniera uguale in presenza di situazioni patrimoniali [continua ..]


4. Patti di convivenza e patti prematrimoniali

Il tema dei contratti tra conviventi è certamente più generale e coinvolge anche i patti prematrimoniali (o pre-unione civile), ben conosciuti da ordinamenti stranieri ed oggi oggetto di disamina da parte del Parlamento. Si avverte sempre più l’esigenza di comporre anticipatamente le conseguenze delle crisi di coppia quando la coppia stessa sta vivendo un momento fisiologico e, quindi, non si trova ad affrontare la patologia del rapporto, che esaspera molto spesso la conflittualità. Non è dato comprendere per quale ragione la coppia non coniugale possa veder realizzata l’autonomia contrattuale dei componenti, mentre altrettanto non possa accadere per chi è sposato o civilmente unito. La giurisprudenza della Corte di Cassazione mantiene un atteggiamento rigoroso nei confronti dei patti patrimoniali, nel presupposto che non sia ammissibile una disciplina ora per allora, come ribadito in relazione agli accordi di separazione consensuale nei quali si predetermini l’assetto del futuro divorzio [3]. Nondimeno si assiste a progressive aperture nei confronti di pattuizioni tra coniugi nelle quali la crisi matrimoniale rappresenti non già causa dell’accordo, bensì il momento condizionante l’adempimento di determinate obbligazio­ni assunte dalle parti [4]. I tempi sono certamente maturi per una riflessione più ampia sull’auto­nomia negoziale, che muova dal presupposto che i conviventi, come del resto i coniugi, ovvero le persone civilmente unite, hanno capacità di agire e, quindi, di gestire la propria sfera giuridica in previsione della crisi familiare.


5. Considerazioni finali

Come è stato osservato [5], una delle clausole di cui viene spesso raccomandato l’inserimento nei contratti di convivenza stipulati all’estero concerne le previsione di effetti giuridici destinati a prodursi dopo la morte di uno dei partner e beneficio dell’altro. In Italia la clausola verrebbe a scontrarsi con il divieto dei patti successori, e quindi con la nullità propria di tutti i negozi con cui un soggetto dispone della propria successione. Nullo sarebbe anche il testamento, che vi abbia dato specifica esecuzione, venendo meno la spontaneità dell’atto di ultima volontà. Ben diversi dai contratti di convivenza sono i contratti tra conviventi: costoro, proprio in forza della libertà contrattuale che compete a tutti i soggetti, potranno disciplinare il menage comune, ovvero soddisfare esigenze del partner più debole, in presenza di eventi che possono incidere anche sul loro rapporto, ricorrendo alle forme contrattuali tipiche più generali. Basti pensare ad un contratto di comodato, in cui sia prevista la scadenza ad una determinata data, con il quale il partner proprietario metta a disposizione dell’altro l’abitazione della famiglia: il fatto che non si sia stipulato un semplice precario tutela il comodatario da eventuali richieste anticipate di restituzione del bene da parte del comodante, che potrà invocare solo gravi motivi sopravvenuti. Altra forma tipica è rappresentata dal contratto di donazione, eventualmente con riserva di usufrutto a favore del donante, che realizza subito l’interesse del beneficiario, ma può essere re­vocato per indegnità o per sopravvenienza di figli o essere oggetto di azione di riduzione da parte dei legittimari. La tranquillità del convivente “debole” sarebbe realizzabile anche con negozi con effetti post mortem (assicurazione sulla vita a beneficio di quel convivente), ovvero un vitalizio alimentare con l’esplicita intrasmissibilità del potere di revoca in capo agli eredi dello stipulante. Occorre allora un approccio più ampio da parte dell’avvocato “della famiglia”, che non potrà prescindere da una specifica conoscenza anche della materia contrattuale.


NOTE