Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
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Diritto alla riservatezza e profili penali. In particolare, utilizzabilità della prova acquisita mediante la commissione di un reato nei processi di separazione e divorzio (di Iolanda Campolo (Avvocato del Foro di Milano))


Testo della relazione tenuta all’incontro di studio “I limiti della prova in relazione alla tutela della privacy nei procedimenti di separazione e divorzio”, organizzato da AIAF Lombardia a Milano il 16 febbraio 2012.

SOMMARIO:

1. La necessità per il difensore di riconoscere le prove acquisite mediante la commissione di un reato - 2. Relazioni familiari e diritto alla riservatezza - 3. Il delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.) - 4. I delitti concernenti le conversazioni telefoniche (artt. 617 e 617 bis c.p.) - 5. Il delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.) - 6. Il reato di illecito trattamento di dati personali (art. 167, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) - 7. L'uso di investigatori privati - NOTE


1. La necessità per il difensore di riconoscere le prove acquisite mediante la commissione di un reato

Prima di entrare nel merito dell’oggetto specifico di questo intervento, è opportuna una breve premessa che riguarda soprattutto, ma non solo, i giudizi di separazione e divorzio. Le modalità attraverso le quali le parti si procurano mezzi di prova da spendere nel processo civile devono essere oggetto di particolare approfondimento da parte del difensore, allo scopo di valutare correttamente l’opportunità di utilizzare la prova medesima in giudizio. A prescindere, infatti, dalla più ampia tematica relativa alla produzione processuale di documenti ottenuti illecitamente, la presenza nel fascicolo di causa di una prova acquisita, ad esempio, per effetto della commissione di un reato rischia di esporre il soggetto che si è procurato la prova a gravi ripercussioni sotto il profilo penale. L’obiettivo di una efficace strategia difensiva nell’ambito del procedimento civile deve quindi essere mediato dal difensore attraverso una visione di più ampio respiro che gli consenta di guardare oltre gli esiti del giudizio in corso, e di valutare tutte le possibili conseguenze di una determinata scelta processuale sulla posizione complessiva del proprio assistito. Viceversa, saper riconoscere una prova acquisita dalla controparte contra legem (ai sensi, in particolare, della legge penale) può essere di supporto per predisporre le opportune reazioni in sede penale a tutela del cliente che rivesta la qualità di persona offesa dal reato. Ciò nell’ottica anche di vagliare l’opportunità di depositare nel giudizio civile l’eventuale querela presentata alla Procura della Repubblica allo scopo di ridimensionare l’efficacia probatoria della prova illecitamente acquisita. Sotto quest’ultimo profilo, una corretta interpretazione delle norme penali da parte del difensore di colui che assume di essere persona offesa da un reato richiede attenta ponderazione. Secondo quanto disposto dall’art. 368 c.p., accusare taluno – mediante una denuncia o una querela rivolta all’autorità giudiziaria – di un reato sapendolo innocente configura il delitto di calunnia. Reato, questo, punito, fatte salve eventuali aggravanti, con la pena della reclusione da due a sei anni e per di più procedibile d’ufficio, sicché anche eventuali successive ricomposizioni bonarie con la controparte resterebbero senza effetto, e il [continua ..]


2. Relazioni familiari e diritto alla riservatezza

Nell’esperienza comune sono tutt’altro che infrequenti le interferenze tra le dinamiche familiari e la privacy dei singoli, soprattutto quando si tratta di dimostrare l’infedeltà del coniuge ovvero l’effettivo reddito e/o la situazione patrimoniale di quest’ultimo. Per arrivare a scoprire l’infedeltà del partner oppure per sapere se questi ha dissimulato la reale consistenza del suo patrimonio al fine di contenere gli oneri di mantenimento, non è raro che il cliente cerchi egli stesso elementi di prova all’interno della casa coniugale dove, per definizione, l’accesso ad informazioni riservate è particolarmente agevolato dalla convivenza e dall’as­senza di barriere oggettive all’intromissione nella sfera riservata altrui. Sotto questo profilo, costituisce principio di diritto consolidato e condiviso dalla giurisprudenza di legittimità penale quello secondo il quale «i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno dei coniugi, ma ne presuppongono anzi l’esistenza, dal momento che la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono di piena e pari dignità; tanto vale anche in caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza» [122]. Il matrimonio non determina quindi, di per sé, alcuna compromissione (tanto meno l’eli­mina­zione) del diritto alla riservatezza che compete a ciascuno dei familiari. Ciò premesso, bisogna però individuare correttamente i confini di tale diritto alla privacy e la portata di eventuali deroghe. In linea di principio, la condotta del coniuge che impieghi (acquisisca, conservi, comunichi) dati personali del consorte per tutelare un proprio diritto in giudizio è legittima e non punibile. Esiste infatti una precisa deroga alle regole comuni contenute nel c.d. Codice della privacy (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) – le quali impongono sempre un preventivo consenso dell’in­teressato al trattamento dei propri dati personali – quando il trattamento medesimo avviene esclusivamente per la finalità di far valere o difendere un diritto in giudizio e per il periodo strettamente necessario al loro [continua ..]


3. Il delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.)

Ciò premesso sul piano generale, il codice penale contiene diverse fattispecie di reato che mettono in gioco il diritto alla riservatezza nell’ambito dei rapporti tra coniugi. Il delitto di interferenze illecite nella vita privata, ad esempio, vieta l’uso di qualunque mezzo di riproduzione visiva o sonora (cioè di qualsivoglia strumento in grado di scattare una fotografia, registrare un video o una conversazione vocale, basti pensare a cosa possono fare gli odierni cellulari), volto ad ottenere indebitamente immagini e/o notizie di terzi nei luoghi di “privata dimora”. Di tali notizie è vietata anche, come è ovvio, l’indebita rivelazione a terzi. Secondo la formulazione letterale della norma, è tutelato il diritto alla riservatezza dell’in­teressato nei luoghi di “privata dimora”: sono quindi pacificamente esclusi i luoghi pubblici (strade, piazze, ecc.) e anche quelli aperti al pubblico come i ristoranti, i pubblici uffici, i bar o i negozi. Cosa debba intendersi per “privata dimora” lo ha chiarito nel tempo l’interpretazione giurisprudenziale, che oggi identifica un luogo di privata dimora come ogni luogo ove l’interessato esplichi, anche solo temporaneamente, la propria sfera intima e privata. In altre parole, ogni luogo ove egli goda di uno ius excludendi nei confronti di tutti gli altri: la propria abitazione, ovviamente, ma anche lo studio professionale o una camera d’albergo per il tempo in cui egli vi dimora. Non costituisce, viceversa, luogo di privata dimora l’abitacolo di una autovettura sulla pubblica via. A questo proposito, si rinviene nella casistica della Corte di Cassazione più di una decisione su episodi simili nei quali l’imputato/a aveva installato sulla macchina dell’ex partner un cellulare con suoneria disattivata e con impostata la funzione di risposta automatica, in modo da consentire la ripresa sonora di quanto accadeva nell’automobile stessa. La Corte di Cassazione, intervenuta su diversi casi analoghi [124] ha sempre assolto gli imputati sul presupposto, per l’appunto, che l’au­tomobile di per sé non costituisce luogo di privata dimora (il che esclude la configurabilità dell’art. 615 bis c.p.) e che per di più, nel caso di registrazione di una conversazione telefonica dell’oc­cupante [continua ..]


4. I delitti concernenti le conversazioni telefoniche (artt. 617 e 617 bis c.p.)

Per quanto riguarda la tutela della riservatezza nelle comunicazioni telefoniche, il codice penale contiene due norme diverse riferite a fattispecie differenti: l’art. 617 (cognizione illecita di comunicazioni telefoniche) e l’art. 617 bis (installazione di apparecchiature atte ad intercettare comunicazioni telefoniche). Si tratta, come detto, di due fattispecie distinte, sanzionando la prima la condotta di chi prende conoscenza – fraudolentemente – e/o rivela il contenuto di comunicazioni inter alios, mentre la seconda disposizione punisce colui che predispone strumenti atti a intercettare conversazioni altrui. Ciò anche a prescindere dalla effettiva ricezione delle altrui comunicazioni. Anche in questo caso, così come nel caso del delitto di illecite interferenze, il reato può essere commesso solo da soggetto diverso rispetto a chi fa o riceve la telefonata, giacché tecnicamente l’intercettazione telefonica è solo quella non diretta a colui che registra o ne prende cognizione, ma solo quella che consente la registrazione o la presa di cognizione di una conversazione tra altre persone. Sotto questo profilo, in tema di rapporti tra coniugi, ancor prima della riforma del diritto di famiglia (figurarsi oggi), si affermava l’inesistenza di uno ius corrigendi, neppure implicito, in capo al marito nei confronti della moglie, né il diritto di controllare fraudolentemente le telefonate e la corrispondenza della moglie, pur se tale attività sia stata ispirata dal fine di accertare la sospetta infedeltà [128].


5. Il delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.)

Il tema è evidentemente assai spinoso e assai ricorrente in ambito familiare. È fuor di dubbio che nessuno possa legittimamente controllare, prendere conoscenza o divulgare i contenuti delle comunicazioni inviate o ricevute dai familiari, ad eccezione del diritto dei genitori, nell’ambito delle proprie potestà, di controllare la corrispondenza dei figli minori. Del resto, la libertà e la segretezza della corrispondenza vengono espressamente qualificate dall’art. 15 Cost. come diritti inviolabili dell’uomo, sicché è chiaro che nessuna deroga può esservi in questo contesto al di fuori dei casi espressamente individuati dalla legge. L’art. 616 c.p. costituisce, per l’appunto, la norma penale posta a presidio dei valori costituzionali sopra evidenziati e prevede due distinte condotte: la presa di conoscenza di corrispondenza chiusa e la rivelazione, senza giusta causa, di corrispondenza (sia chiusa che aperta). Sotto questo profilo, si badi che persone offese del reato di cui all’art. 616 c.p. possono essere indifferentemente sia il mittente che il destinatario della posta “violata”, sicché entrambi sono legittimati a proporre querela alla Procura della Repubblica. Ai fini della sussistenza del reato, la comunicazione di cui si prende abusivamente conoscenza deve essere attuale (non lettere risalenti nel tempo, dunque) e personale (cioè indirizzata ad una persona determinata). Con riferimento alla prima delle fattispecie descritte dalla norma incriminatrice (ovvero la presa di cognizione di corrispondenza altrui), deve trattarsi di corrispondenza qualificabile come “chiusa”; deve risultare evidente cioè la volontà del mittente (o del destinatario) che quel messaggio resti visibile solo per quest’ultimo (non solo una busta fisicamente chiusa, ma – come oggi frequentemente può accadere – anche un messaggio di posta elettronica su un indirizzo protetto da password [129]). A questo proposito, in una celebre sentenza della V sezione della Cassazione penale [130] si afferma a chiare lettere che la corrispondenza deve ritenersi tutelata in sé, perché essa stessa è segreta per espressa previsione di legge, a prescindere dalla segretezza o meno del suo contenuto, sicché deve ritenersi inibito al coniuge di prendere visione della corrispondenza indirizzata [continua ..]


6. Il reato di illecito trattamento di dati personali (art. 167, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196)

Anche il Codice in materia di protezione dei dati personali contiene norme incriminatrici a protezione del diritto alla riservatezza. In particolare, l’art. 167 del citato testo normativo punisce chiunque compia un trattamento di dati personali in violazione delle norme contenute nel Codice medesimo. È piuttosto difficile, in ragione della disciplina generale che regola il trattamento dei dati personali, che questa norma incriminatrice possa trovare applicazione nei rapporti fra coniugi. Ciò nondimeno, è accaduto che un investigatore privato sia finito imputato in un procedimento penale per essere stato incaricato di introdursi nel sistema informatico di un noto gestore telefonico, attraverso il computer dell’ufficio presso l’agenzia investigativa in cui lavorava, allo scopo di estrarre dati di traffico telefonico riferiti al numero di telefono del marito della committente, la quale voleva raccogliere prove dell’infedeltà di quest’ultimo. L’accesso era avvenuto una sola volta e, per l’appunto, al solo scopo di trovare prove della presunta infedeltà [133]. Secondo la Corte di Cassazione, le particolari modalità del fatto concreto rendevano operativa la clausola limitativa di cui all’art. 5, 3° comma, del Codice in materia di protezione dei dati personali secondo cui «il trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali è soggetto all’applicazione del presente codice solo se i dati sono destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione». La presenza di uno scopo esclusivamente personale perseguito dalla committente escludeva così, secondo il Supremo Collegio, la sussistenza del reato contestato.


7. L'uso di investigatori privati

La decisione sopra ricordata fornisce lo spunto per qualche breve accenno alla figura degli investigatori privati. Le norme contenute nel Codice della privacy valgono ovviamente anche per questi ultimi. Sul punto è bene ricordare che il Garante della Privacy ha rilasciato un’autorizzazione c.d. generale (segnatamente la n. 6/2002, pubblicata sulla G.U. 9 aprile 2002, n. 83) proprio per il trattamento dei dati sensibili da parte degli investigatori privati (più precisamente, l’autorizzazione è concessa a “persone fisiche e giuridiche, istituti, enti, associazioni ed organismi che esercitano un’at­tività di investigazione privata autorizzata con licenza prefettizia”). Trattandosi di autorizzazione generale, i soggetti che rientrano nel relativo ambito di applicazione (ossia gli investigatori muniti di licenza) non devono presentare alcuna richiesta di autorizzazione ogni volta che si trovino a trattare dati personali altrui, ma sono solo tenuti a rispettare il provvedimento generale e a conformare la propria attività a quanto ivi prescritto. Sinteticamente, è bene tener presente che la citata autorizzazione generale prevede quanto segue: • gli investigatori possono trattare dati sensibili solo dietro conferimento di un incarico scritto finalizzato a far valere o difendere un diritto in giudizio; • i dati in questione possono essere comunicati unicamente al soggetto che ha conferito l’in­carico e possono essere conservati per un periodo non superiore a quello strettamente necessario per eseguire l’incarico ricevuto; • i dati idonei a rivelare lo stato di salute possono essere diffusi solo se è necessario per finalità di prevenzione, accertamento o repressione dei reati; • i dati relativi alla vita sessuale non possono essere diffusi. Agli occhi della legge penale poi, gli investigatori privati non sono affatto diversi da qualsivoglia privato cittadino. Costoro – pur essendo professionisti muniti di apposita licenza rilasciata dal Prefetto secondo le norme del TULPS – soggiacciono infatti a tutti i limiti previsti per il cittadino per così dire comune. Ciò che non è consentito a quest’ultimo dalla legge penale non è consentito neppure agli investigatori privati professionali. Ora, nell’espletamento delle attività tipicamente poste in [continua ..]


NOTE