Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
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La prova dei "diritti di affidamento" e della "residenza abituale" nel procedimento di sottrazione internazionale del minore (di Manuela Tirini (Avvocato del Foro di Bologna))


SOMMARIO:

1. Premessa - 2. I presupposti applicativi della Convenzione Aja 1980. La prova dei "diritti di affidamento" - 3. La prova della "residenza abituale" - 4. I pių recenti orientamenti giurisprudenziali - 5. La prova delle condizioni ostative al rientro del minore ai sensi dell'art. 13 della Convenzio­ne Aja 1980 - NOTE


1. Premessa

La sottrazione internazionale di minore rappresenta uno dei più attuali disagi sociali che attanagliano la nostra epoca. Con il termine “sottrazione di minore” si intende l’ormai noto fenomeno rappresentato dall’atto mediante il quale un genitore decide volontariamente e unilateralmente di sottrarre il figlio all’altro genitore con l’intenzione di nasconderlo, o di tenerlo con sé, in modo permanente. L’illiceità della condotta è intrinseca nell’arbitrarietà della scelta del genitore che, senza il consenso dell’altro, trasferisce o trattiene il figlio oltre confine, allontanandolo dal luogo della sua “residenza abituale” e nel quale è da sempre cresciuto, sottraendolo all’affetto del padre o della madre titolari entrambi dei diritti di affidamento. L’esponenziale aumento di casi tipici di sottrazione hanno reso evidente l’inadeguatezza della disciplina nazionale di riferimento in tema di controversie in materia di filiazione, facendo risaltare, al contrario, la decisa affermazione del ruolo delle Convenzioni internazionali. A tal fine il quadro normativo di riferimento viene fornito a livello sovranazionale dalla Convenzione Aja 1980 sugli aspetti civili della sottrazione, ratificata dall’Italia con la l. n. 64/1994, integrato per i soli Paesi facenti parte della UE dal Reg. 2201/2003. La Convenzione Aja, in quanto strumento convenzionale di natura cautelare, aspira a ripristinare la situazione di fatto, legalmente giustificata, relativa all’affidamento del minore ed al diritto di visita attributo ai genitori, in particolare mirando ad assicurare l’immediato ritorno di un minore degli anni 16 nello Stato richiedente (accertato quale Stato di “residenza abituale” dello stesso), qualora questi sia stato trasferito o trattenuto illecitamente in altro Stato membro (art. 3). L’art. 1 della Convenzione ne indica le finalità applicative: a) assicurare l’immediato rientro del minore illecitamente trasferito o trattenuto in altro Stato membro; b) assicurare che i diritti di affidamento e di visita previsti in uno Stato membro siano effettivamente rispettati negli altri Stati contraenti.


2. I presupposti applicativi della Convenzione Aja 1980. La prova dei "diritti di affidamento"

I presupposti alla presenza dei quali si applica la Convenzione, integrata dalle disposizioni del Reg. UE 2201/2003 che sulla stessa prevalgono, restano secondo l’art. 3 la «violazione dei diritti di custodia assegnati ad una persona, istituzione o ente, congiuntamente o individualmente, in base alla legislazione dello Stato dove il minore aveva la “residenza abituale” prima del trasferimento». Appare pertanto evidente che, al fine di poter chiedere l’applicazione della Convenzione Aja 1980 e del Regolamento (CE) 2201/2003 meglio noto come Bruxelles II bis, gravi sul ricorrente l’onere di provare il proprio diritto di custodia effettivamente esercitato e che il minore avesse la “residenza abituale” nel Paese in cui viene chiesto il rientro. Secondo la Convenzione, il concetto di custodia ricomprende tutti i diritti concernenti la cura della persona del minore, ed in particolare il diritto di decidere riguardo il suo luogo di residenza. Pertanto, la nozione di diritto di affidamento (o di “custody”), accolta dalla Convezione Aja, è decisamente ampia e ricomprende essenzialmente tutti i diritti inerenti la cura del minore. Tale diritto di custodia può essere fondato su di un provvedimento, inerente ovviamente ai diritti di affidamento del minore conteso dai genitori, emesso dall’Autorità Giudiziaria competente a decidere in base alla “residenza abituale” del bambino, o ex lege. A tal proposito, in regime di affidamento esclusivo, la Suprema Corte ha ribadito a più riprese che non è illecito il trasferimento del minore all’estero compiuto dal genitore titolare dell’affi­damento [1], che non può, senza reale giustificazione, essere leso nel diritto di poter scegliere liberamente la propria residenza anche se distante dalla precedente e nonostante renda più complicato l’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore. Pertanto, quest’ultimo, trattandosi di trasferimento legittimo, non avrà titolo per richiedere il rientro del minore ex Convenzione Aja 1980 [2] ma soltanto una modifica delle condizioni relative al diritto di visita. La violazione descritta all’art. 3 della Convenzione richiede inoltre un ulteriore elemento di natura fattuale al fine di poter considerare illecito il trasferimento, ovvero è necessario che [continua ..]


3. La prova della "residenza abituale"

Né a livello interno, né a livello internazionale, le fonti hanno provveduto a fornire una specifica e chiara nozione di ciò che si intenda per “residenza abituale”, benché dalla determinazione di tale definizione normativa dipenda l’applicazione delle norme introdotte dalla Convenzione Aja e dal Regolamento (CE) 2201/2003, nonché la stessa nozione di trasferimento illecito che, all’art. 3 Conv., si determina dalla violazione dei diritti di affidamento attribuiti dall’ordina­men­to dello Stato «nel quale il minore aveva la “residenza abituale” immediatamente prima del trasferimento». In particolare, il criterio della “residenza abituale” del minore è adottato per l’individuazione del foro più idoneo a pronunciarsi sulla questione, quale unico giudice competente a decidere nel merito dei diritti di affidamento e della responsabilità genitoriale. In sostanza, considerando il rapporto di vicinanza del giudice del luogo di “residenza abituale” del minore con i trascorsi di vita dello stesso, si statuisce che sia l’unico in grado di poter valutare le misure da adottare nell’esclusivo interesse del minore, in rapporto all’allontanamento dai suoi affetti e dalla vita che ha trascorso fino a quel momento in quei luoghi. Non si rinviene una definizione unanime dell’istituto neppure a livello nazionale. La Corte di Cassazione ha, infatti, definito il concetto di “residenza abituale” riferendosi «al luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, derivanti dallo svolgersi in detta località della sua quotidiana vita di relazioni» [4]. Con la nozione di centro stabile dei suoi legami affettivi si intende «la residenza affettiva, vale a dire il luogo in cui il minore custodisce e coltiva i suoi più radicati e rilevanti legami affettivi ed i suoi reali interessi» [5]. Si è, così, ritenuto necessario un intervento chiarificatore da parte della Corte di Giustizia Europea che, con la sentenza 2 aprile 2007 – Causa C-523/07 – ha dato una profonda svolta interpretativa. Secondo la Corte di Giustizia, infatti, nel delimitare il concetto di “residenza abituale”, si deve intendere «quel luogo che [continua ..]


4. I pių recenti orientamenti giurisprudenziali

Per quanto riguarda il quadro di riferimento europeo, secondo le linee dettate dalla sentenza C-523/07, la Corte di Giustizia si è mossa nel senso di definire il concetto di “residenza abituale” del minore come «il luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare. Tale luogo deve essere determinato dal giudice nazionale tenendo conto di tutte le circostanze di fatto specifiche di ciascuna fattispecie» [7]. La Corte ha precisato, nella citata sentenza, che tra i criteri che il giudice nazionale è tenuto ad utilizzare a tal fine, occorre menzionare, in particolare, «le condizioni e le ragioni del soggiorno del minore nel territorio di uno Stato membro, nonché la sua cittadinanza». Di fatto, altri elementi supplementari, oltre alla sua presenza fisica su di un territorio, devono dimostrare che la presenza del minore in uno Stato membro non sia temporanea o occasionale, ma che abbia il carattere della stabilità o della regolarità. Secondo quanto affermato dalla Corte, può costituire un indizio determinante al fine dell’in­dividuazione del trasferimento della “residenza abituale” del minore «l’intenzione del titolare della responsabilità genitoriale di stabilirsi con il minore in altro stato membro, determinata mediante determinate misure concrete, come l’acquisto o la locazione di un alloggio nello Stato mem­bro ospitante», in sostanza deve essere chiara la volontà dell’interessato di fissarvi la propria residenza, facendolo diventare il centro abituale dei propri interessi. Prendendo posizione anche sulla controversa situazione della sottrazione di un minore, nel caso in cui si tratti di un neonato, la Corte ha precisato che l’ambiente di un minore in tenera età coincide con l’ambiente familiare determinato dalla persona di riferimento con la quale vive e che si prende cura di lui. Pertanto, al fine di identificare la “residenza abituale” di un neonato che soggiorna con la madre in altro Stato membro diverso da quello in cui è nato ed ha vissuto per pochi mesi, possono essere presi in considerazione altri criteri, quali «le ragioni del trasferimento verso un altro Stato membro della madre del minore, le sue conoscenze linguistiche o le sue  origini familiari e geografiche», e ovviamente «la durata, la [continua ..]


5. La prova delle condizioni ostative al rientro del minore ai sensi dell'art. 13 della Convenzio­ne Aja 1980

Alla luce delle disposizioni della Convenzione Aja 1980 e del Regolamento (CE) 2201/2003, il rigetto dell’istanza di rientro è da considerarsi ipotesi eccezionale, subordinata al prodursi di determinate e specifiche circostanze, previste in maniera tassativa dall’art. 13 della Convenzione Aja. Tali circostanze debbono essere debitamente provate dalla parte resistente. Il diniego può fondarsi innanzitutto sulla prova che il genitore affidatario, al momento della sottrazione, non esercitava di fatto il diritto di custodia o comunque aveva prestato, anche ex post, il suo consenso al trasferimento o mancato rientro del minore (art. 13, 1° comma, lett. a). È inoltre possibile addivenire ad un rigetto dell’istanza di rimpatrio qualora sia addotta la prova (il cui onere grava in capo al/alla resistente) che il ritorno nella “residenza abituale” determinerebbe nel minore il fondato rischio di essere esposto a pericoli fisici o psichici o di trovarsi in una situazione intollerabile (art. 13, 1° comma, lett. b). Si tratta dell’eccezione più invocata dal genitore che si oppone al rimpatrio. Nella prassi è assai frequente che il genitore che trasferisce o trattiene all’estero il figlio minore presenti, immediatamente prima della sottrazione, una denuncia per minacce o violenze ai danni propri o del minore contro il genitore coaffidatario o i di lui prossimi congiunti. In diversi casi può trattarsi di argomentazioni pretestuose aventi l’unico obiettivo di impedire il rimpatrio del minore nel tentativo di legittimare la commessa sottrazione di fronte all’autorità, facendola apparire come un gesto estremo dettato dalla necessità di salvare se stesso e/o il figlio dai gravi rischi e pregiudizi provocati dalla condotta irresponsabile dell’altro genitore. Alla luce di tali circostanze, il Regolamento (CE) 2201/2003, ad integrazione di quanto stabilito nella Convenzione Aja 1980, è intervenuto a limitare l’applicazione di tale eccezione al rimpatrio, stabilendo che il giudice del rimpatrio è comunque obbligato a ordinare il ritorno del minore («non può rifiutarsi di ordinare il ritorno del minore», secondo la dizione dell’art.11.4) qualora sia dimostrato che nello Stato di “residenza abituale” del medesimo sono previste misure adeguate per assicurare la protezione del minore dopo il suo [continua ..]


NOTE