Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
G. Giappichelli Editore

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Tra pregiudizio e giudizio (di Paola Di Nicola (Giudice del Tribunale di Roma))


SOMMARIO:

1. Tra pregiudizio e giudizio - 2. Tra pregiudizio e giudizio nel processo - 3. Le donne vittime del pregiudizio nel processo - 4. L’avvocatura e il suo ruolo contro il pregiudizio di genere - NOTE


1. Tra pregiudizio e giudizio

Secondo un noto aforisma attribuito ad Albert Einstein è più facile scindere un atomo che spezzare un pregiudizio. È la sua pervasività inconsapevole a renderlo così duro da estirpare in qualsiasi contesto esso si esprima, incluso quello giudiziario. Il pregiudizio è un giudizio emesso, senza possedere i dati di esperienza necessari, nei confronti di gruppi sociali considerati in modo ingiustificato sfavorevolmente. Esso non si limita ad una mera valutazione, ma serve anche ad orientare concretamente l’azione di chi lo emette. Il pregiudizio viene costruito giorno dopo giorno nella vita di ciascuno perché appartiene al contesto culturale di provenienza, ai proverbi (donna al volante pericolo costante, chi dice donna dice danno), alle favole (donne principesse indifese o streghe malefiche), alla pubblicità (donne che si illuminano davanti ad un sapone per lavatrice o che assumono atteggiamenti erotici nel mangiare un gelato), al linguaggio (“Signori giudici” davanti a un collegio di donne, il diverso significato di “una buona donna/un buon uomo”, “a misura d’uomo, a passo d’uomo”), ai media (pochissime opinioniste e moltissime ballerine), alle conversazioni comuni (“donne, vecchi e bambini”, sii uomo, non fare la femminuccia), anche quelle che appaiono le più neutre possibili. Ammesso che il neutro esista. Il pregiudizio è, dunque, un sostrato su cui viene filtrata e letta la realtà che ci circonda, ostacolo ad un’operazione di giudizio e conoscenza libere. Il nucleo cognitivo del pregiudizio è lo stereotipo, cioè l’insieme di informazioni e credenze, relative a determinati soggetti, rielaborate in un’immagine coerente in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti. Pregiudizio e stereotipo hanno in comune la semplificazione grossolana e rigida della realtà, creano entrambi delle vere e proprie strutture mentali nelle quali questa viene incasellata, senza consentire di cogliere l’infinita varietà di sfumature che la rende complessa. Si pensi agli insulti che sono in gran parte al femminile («figlio di ...») o il diverso significato di un governante/una governante o la domanda che viene spesso rivolta dai giornalisti alle donne – non agli uomini – che hanno ruoli apicali: «Come concilia il [continua ..]


2. Tra pregiudizio e giudizio nel processo

Pregiudizio e stereotipo sono il sostrato cui appartiene qualsiasi contesto conoscitivo, incluso il processo che ne costituisce il luogo di elezione per eccellenza per tre ragioni: 1.   perché vi si esprimono conflitti personali e sociali secondo narrazioni e punti di vista divergenti; 2.   perché ogni aspetto del conflitto viene raccontato da una parte, epigono di un contesto culturale; 3.   perché il giudice emette un giudizio, mediato dal contesto conflittuale indicato e dalla propria stessa formazione, che fissa una sintesi interpretativa a propria volta coinvolgente anche l’applicazione di norme frutto di una mediazione tra valori ed interessi. Tutte queste narrazioni non possono che essere imprecise, manipolate, figlie delle categorie culturali del gruppo che le esprime e pervase, per ciò solo, dei corrispondenti pregiudizi e stereotipi di appartenenza. La narrazione processuale incrementa anche un altro fondamentale veicolo dello stereotipo: il linguaggio che esprime rapporti di potere, li riproduce e li conferma (es: il buon padre di famiglia, l’uomo politico, la donna delle pulizie, la zitella acida, lo scapolo d’oro) e volge tutto al ma­schile, anche ciò che appartiene al genere femminile. La domanda è, a questo punto, se il pregiudizio, che di certo inquina le narrazioni processuali delle parti, si appropri, inconsapevolmente, anche del giudizio che ne consegue. La risposta non può che essere positiva in quanto: –    la piattaforma di conoscenze culturali di chi esercita l’atto del giudicare e dell’interpretazio­ne è pervasa a sua volta dal pregiudizio, costitutivo di qualsiasi ambito conoscitivo; –    il giudizio opera su materiale costruito sul pregiudizio appartenente ai protagonisti del processo. Gli imputati e le vittime nel processo penale, così come gli attori e i convenuti nel processo civile, oltre che i testimoni, con la loro personale rappresentazione confermano quasi sempre gli stereotipi temendo altrimenti di non essere creduti. Paradossalmente sia la vittima che l’autore del reato, sia l’attore che il convenuto, sono intrisi dello stesso stereotipo e ritengono di doverlo esprimere al meglio, cioè al massimo della sua connotazione negativa, per essere ritenuti rispettivamente attendibili. Il rischio [continua ..]


3. Le donne vittime del pregiudizio nel processo

Per arrivare al traguardo difficile, sofferto e dovuto, dell’imparzialità della giurisdizione, unico a consentire di ottenere un giudizio che si possa definire tale, è necessario riconoscere e superare il pregiudizio di genere che è radicato in ognuno di noi, nelle parti del processo, uomini e donne della magistratura e dell’avvocatura, in quanto uomini e donne di questo Paese. L’imparzialità non è la neutralità rispetto alla vita, rispetto alle cose, rispetto alle scelte e men che meno rispetto alle parti processuali, ma è un percorso culturale complesso che richiede cultura, scavo, studio e, prima ancora, decostruzione del pregiudizio di genere e decodificazione dei suoi simboli e delle sue pratiche. Partiamo da un dato di fatto: esiste a livello planetario la convinzione radicata che le donne siano inferiori agli uomini e dunque a questi “naturalmente” sottoposte, convinzione per la cui giu­stificazione e perpetuazione è necessario riprodurre, su larga scala, una certa immagine delle don­ne e degli uomini che non può che avere le caratteristiche dello stereotipo. Le donne diventano, quindi, emotive, gentili, sensibili, dipendenti, irrazionali, timide, passionali, poco interessate alla tecnica, curate nell’aspetto, “biologicamente” disposte alla cura degli altri, capaci di sopportazione, mangiatrici di uomini, madri di famiglia, false, isteriche. Nel vocabolario Treccani on line si legge, non a caso, questa definizione di donna, perfettamente riproducente i citati stereotipi: «Donna. Nella specie umana, l’individuo di sesso femminile, soprattutto dal momento in cui abbia raggiunto la maturità anatomica e quindi l’età adulta: una giovane d., una d. anziana; non è ancora una d. (non ha ancora raggiunto la pubertà) ...; frequente in frasi di apprezzamento: una bella d., una d. affascinante, piacente, elegante, di classe, di spirito, una vera donna. Si contrappone a uomo in espressioni come: voce di donna; scarpe, abiti, borse, orologi da donna (nelle quali si alterna, spesso con da signora o con l’agg. femminile); il carattere, la sensibilità, l’intuito della d., ecc., con senso sim., anche le d. di casa, distinto da una d. di casa, che accudisce da sé alle faccende domestiche, o si occupa solo della casa e della [continua ..]


4. L’avvocatura e il suo ruolo contro il pregiudizio di genere

La questione che stiamo esaminando non riguarda orientamenti giurisprudenziali più o meno condivisibili, ma attiene ad un piano più ampio che coinvolge ciò che dobbiamo preservare sotto il profilo istituzionale: l’imparzialità della giurisdizione. Questa si ottiene e si conquista, giorno dopo giorno, depurandola dall’inquinamento pervasivo del pregiudizio nei confronti delle donne che troppo spesso, inconsapevolmente, incide sullafor­mazione della prova e sulla decisione. Perché altrimenti i dati allarmanti di una ricerca della II Università di Napoli dimostrano che il 70% delle donne vittime di femminicidi aveva già denunciato il proprio aggressore? Perché solo una percentuale minimale dei maltrattamenti in famiglia e delle molestie sessuali subìte dalle donne e dalle bambine viene denunciata, a fronte di un fenomeno invece diffusissimo che ha portato decine di Paesi a sottoscrivere le Convenzioni di Istanbul e di Lanzarote? La risposta è drammaticamente semplice: perché la cultura e di conseguenza il processo, che ne è una delle sue indirette manifestazioni, sono infestati dal pregiudizio secondo il quale le donne denunciano esclusivamente per ragioni strumentali, per approfittare di qualcosa o di qualcuno. Tenere l’appartamento familiare, pretendere l’assegno di mantenimento, ottenere l’affidamen­to dei figli, ecc. L’esercizio dei diritti si trasforma troppo spesso in pretese strumentali. A parte le dovute eccezioni, forse, prima di liquidare così facilmente le ragioni di una denuncia, proprio a fronte dei dati che ci vengono dall’Università di Napoli, dall’ISTAT e dall’Unione eu­ropea sulla violenza sommersa e quotidiana di cui sono vittime le donne, specialmente nelle loro famiglie, sarebbe opportuno accertare, con i dovuti approfondimenti, il contesto in cui le vicende denunciate si consumano, cosa intendere per strumentalità e se poi davvero questa risulti. Su tutti questi profili l’avvocatura ha un ruolo essenziale perché da un lato, costituendo il filtro preliminare delle istanze delle parti processuali, è in grado di depurarle del pregiudizio che le loro prospettive inevitabilmente portano; dall’altro lato consente di predisporre un materiale probatorio e fattuale al giudice tale da portarlo o meno a indulgere nel [continua ..]


NOTE