Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
G. Giappichelli Editore

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I centri antiviolenza (di Lorenza Razzi (Avvocato in Prato))


SOMMARIO:

1. Che cosa è un centro antiviolenza - 2. Le caratteristiche fondanti dei centri - 3. L’operatrice di accoglienza - 4. Cenni sulle case rifugio - 5. La rete. La sensibilizzazione e l’informazione - 6. L’informazione legale: il ruolo dell’avvocata - 7. Una esperienza concreta: il Centro antiviolenza “La Nara” di Prato - 8. Alcuni dati sul costo sociale-economico della violenza al 2013 – Indagine INTERVITA ONLUS con patrocinio Dipartimento Pari Opportunità


1. Che cosa è un centro antiviolenza

Un discorso corretto sui centri antiviolenza non può prescindere dalla loro storia, come e perché sono nati in Italia. Fondamentale, per capire cosa sono i CAV, è sapere che la loro nascita trova origine in un forte legame tra pratica e politica, e che sono nati dal percorso politico compiuto dal movimento delle donne in occidente dagli anni ’60 agli anni ’80. Dal movimento di liberazione e dal femminismo le donne hanno iniziato a far luce sul problema della violenza con le battaglie per il divorzio, l’aborto e i diritti sociali, con la ricerca in tutti i contesti, pubblici e privati, di una maggiore emancipazione, libertà e riconoscimento di eguali diritti. I primi centri antiviolenza sono nati nel 1990 a Bologna, Milano, Roma e Merano. Si può con certezza affermare che nella Regione Emilia Romagna i CAV furono, fino da subito, più attivi e numerosi rispetto ad altre realtà, probabilmente grazie anche all’appoggio politico di donne amministratrici più presenti che altrove nelle amministrazioni locali. Nel 1996 si tenne a Marina di Ravenna il primo Convegno nazionale dei CAV. È importante conoscere la genesi dei CAV, in quanto è essenziale la gestione dei Centri da parte di un’associazione di donne in quanto soggetto politico. In Italia, così come in altri paesi, i CAV sono luoghi gestiti da Associazioni di donne predisposti per accogliere donne che hanno subìto violenza. L’azione di aiuto si concretizza, nella maggioranza dei casi, nella fase iniziale, in una accoglienza telefonica. Di regola, dal primo contatto – telefonico o meno – si passa a un primo incontro con le operatrici, e si procede poi nel percorso attraverso colloqui successivi, colloqui specialistici (con avvocate e/o psicologhe) con gruppi di auto-aiuto, con la accoglienza nella Casa rifugio (ove necessario). L’attività di accoglienza, infatti, è nella maggior parte dei casi accompagnata da altre attività e progetti: la consulenza legale; la consulenza psicologica; i progetti di orientamento e inserimento nel mondo del lavoro; l’attività – fondamentale – di rete con i servizi presenti sul territorio (Forze dell’Ordine, assistenti sociali, medici, associazioni di volontariato) che concorrono a fornire protezione e i servizi specifici richiesti dalle donne caso per caso. Oltre [continua ..]


2. Le caratteristiche fondanti dei centri

I CAV come le donne che si rivolgono ai centri vengano considerate «in stato di temporaneo disagio». I CAV amano considerarsi luoghi di transito verso l’autonomia, luoghi per sottrarsi alla violenza, ma anche per avvicinarsi alla libertà. La donna che si rivolge al CAV è considerata così un soggetto agente, “con” la quale (non “per” la quale) l’operatrice lavora per un progetto di riorganizzazione della propria vita, senza mai sostituirsi a lei. Si tratta dunque di un lavoro non di tipo “assistenziale”, in quanto la sola assistenza, anche se dà risposte immediate, lascia la donna in una situazione passiva, mentre l’obiettivo è sostenere la donna, affinché da se stessa ritrovi il coraggio e la forza di costruirsi un progetto di vita futura concreto e possibile che tuteli se stessa e i suoi figli. In questo percorso di sostegno non c’è niente di prescritto: la donna non è obbligata, evidentemente, alla denuncia né alla separazione, ma può accedere a una visione politica, offerta dall’operatrice, che propone di guardare la realtà in modo diverso dalla cultura dove viene fatta passare come normale la prevaricazione, il controllo, la gestione delle relazioni in termini di potere e violenza. Strumento fondante della metodologia di aiuto è la relazione tra donne, si tratta di un vero e proprio metodo di lavoro, che è stato oggetto di studi approfonditi. È solo attraverso la relazione tra l’operatrice e la donna che chiede aiuto che questa può andare verso un cambiamento, al quale viene accompagnata dall’operatrice. Va peraltro detto che anche l’operatrice è parte di questo processo di trasformazione, e ne viene arricchita a sua volta, in un rapporto che è sempre originale e unico. Si tratta, pertanto, di una relazione dagli sviluppi “creativi”, nel senso che è impossibile prevedere la crescita e il cambiamento finali. Fondamentale è sempre l’idea che la crescita deve partire dalla persona che chiede aiuto, mai imposta o esplicitamente suggerita. Il personale del Centro deve essere costituito, così, esclusivamente da donne: come meglio diremo nel paragrafo successivo, deve trattarsi di donne adeguatamente formate sul tema della violenza e della accoglienza. Alle operatrici del Centro è fatto [continua ..]


3. L’operatrice di accoglienza

L’accoglienza è l’attività di ascolto e/o protezione offerta alla donna adulta, italiana o straniera, che contatta il CAV per problematiche legate al maltrattamento subìto, prevalentemente in ambito domestico, o esterno. L’ascolto che viene offerto alla donna è approfondito e accogliente, e teso a sostenerla affinché ella possa prendere la decisione più opportuna, individuando, valorizzando e potenziando le sue risorse. Quando il primo contatto non è preso dalla donna, ma da un familiare, un’amica, l’avvocato, l’assistente sociale, si danno indicazioni perché sia la donna stessa a contattare il CAV: è importante che sia la interessata a compiere il primo passo per l’uscita da una situazione di violenza. L’operatrice dunque, come detto, non forza a prendere decisioni non realistiche o non riconosciute come tali, allo stato, dalla donna: questa viene invece aiutata a far luce sui propri desideri, a tradurli in obiettivi, a tentare di realizzarli. Il primo obiettivo che l’operatrice si propone è costruire una relazione di fiducia con la donna. La relazione che si instaura tra la donna che ascolta e la donna che racconta è essenziale: è il tramite che consente a questa di raggiungere una consapevolezza di sé. Tra i principi che l’operatrice deve osservare ve ne sono alcuni che costituiscono “vincoli”: a) La riservatezza. È un elemento cruciale, punto di partenza per creare una relazione di fiducia. Per tale motivo, le “uscite” sulla stampa, anche relativamente a casi eclatanti o clamorosi, devono essere evitate, onde non consentire la riconoscibilità della donna, specie in piccole realtà di provincia. b) Credere al racconto della donna. L’operatrice è tenuta a credere quanto la donna racconti sulla sua esperienza di violenza. Anche questo principio ha effetti importanti: nella società patriarcale le parole delle donne non hanno valore, pertanto le donne temono di non essere prese sul serio, e perciò spesso attendono anni prima di raccontare la loro esperienza. Talvolta la donna fatica a raccontare, per vergogna, o perché ciò che ha sopportato è così grave da essere indicibile. La scelta delle parole da parte dell’operatrice in questa fase è molto accurata, così da escludere il [continua ..]


4. Cenni sulle case rifugio

La casa rifugio è il luogo dove le donne trovano accoglienza in situazione di emergenza, in presenza di una situazione di pericolo, talvolta anche molto grave, per se stesse per i figli. Non si tratta di un albergo né di un istituto, ma di un luogo dove le donne continuano le proprie attività quotidiane di studio, lavoro ove possibile, accudimento dei figli, ed è gestita in autonomia. La principale misura di sicurezza della casa rifugio è costituita dalla segretezza dell’indirizzo, mantenuta ad ogni costo, anche nei confronti delle istituzioni. Basti pensare che la segretezza del­l’indirizzo viene mantenuta anche negli atti di natura giuridica (come la richiesta di un ordine di protezione in sede civile) nei confronti dello stesso Ufficio Giudiziario competente a decidere. Per lo stesso motivo, le ospiti non possono ricevere visite durante la loro permanenza. L’ingresso in Casa rifugio può essere d’emergenza: in questo caso occorre seguire una procedura particolare, se la donna, soprattutto, ha figli minori, occorre procedere con le dovute comunicazioni al partner, motivando l’uscita dei figli e il loro temporaneo allontanamento (al fine di prevenire denunce per sottrazione dei figli, richieste di addebito della separazione, ecc.). Possono accedere alla Casa rifugio donne maggiorenni, con o senza figli, che abbiano bisogno di un’abitazione sicura a causa della violenza subita da parte del partner o ex partner. Per i vincoli che i CAV si danno e dei quali si è detto non sono ammesse donne alcoliste, tossicodipendenti o con un disagio mentale: in molte case i figli maschi sono ammessi solo fino all’età di 14 anni. Oltre al rispetto del vincolo della segretezza, le donne ospiti si impegnano a lasciare la casa entro un tempo stabilito, e a non rivelare l’identità delle altre ospiti, sottoscrivendo un vero e pro­prio patto. L’infrazione del regolamento sul punto della segretezza, così come anche la violazione di altre regole importanti (come quella di essersi fatta accompagnare dal partner che la maltrattava, o da un nuovo partner) possono comportare l’allontanamento della donna dalla Casa rifugio. L’al­lontanamento è deciso dalla coordinatrice, e una volta deciso va attuato rapidamente, dato che in gioco è la sicurezza della Casa. La durata dell’ospitalità [continua ..]


5. La rete. La sensibilizzazione e l’informazione

Per i CAV è indispensabile l’apertura verso l’esterno, così da creare una rete di collaborazione con i servizi territoriali di riferimento e con le Istituzioni, al fine di dare una risposta adeguata e soddisfacente al problema violenza. Si tratta di una vera necessità: la violenza, in qualunque sua forma (fisica, psicologica, economica, sessuale) produce conseguenze gravi, e oltre a compromettere l’autostima della persona ne riduce notevolmente l’autonomia. Così, una donna vittima di maltrattamento domestico ha bisogno di riflettere sulla propria condizione, di individuare i rischi che corre, le possibilità di intervento: di cercare le risorse a disposizione, e trovarne altre che le consentano di iniziare una nuova vita. Le richieste più frequenti che le donne rivolgono ai CAV, oltre a quelli di ascolto, sostegno, richiesta di alloggio in casi di emergenza, sono le informazioni e la consulenza di carattere legale; il lavoro; la casa, contributi economici, aiuto per il sostentamento alimentare, aiuto nella gestione dei figli, in modo da poterlo conciliare con il lavoro, richiesta di informazione per regolarizzare il permesso di soggiorno. Se la donna è straniera si aggiungono altri problemi, come la difficoltà a esprimersi nella nostra lingua, il permesso di soggiorno, l’integrazione culturale; non si deve dimenticare che talora le donne straniere sono tenute dai compagni in una condizione di vero e proprio isolamento, che impedisce loro ogni contatto con la realtà che le circonda. Se il ciclo della violenza dura da anni, poi, le condizioni di vita della vittima sono ancora più compromesse e ne risente la salute psico-fisica, con la necessità di ricorrere a cure sanitarie e ai Servizi sociali. Al fatto di subire violenza, come hanno evidenziato recenti ricerche svolte soprattutto negli Stati Uniti, consegue che le donne vittime di violenza utilizzano, più frequentemente delle altre, servizi come il medico di famiglia, il Pronto Soccorso, i servizi pubblici per problemi sessuali e di terapia familiare, i servizi di psichiatria, di sociologia, quelli per il trattamento delle dipendenze. Esiste un problema di costo sociale della violenza, sul quale non è stata fatta ancora adeguatamente luce. Per offrire una risposta integrata al problema della violenza i CAV hanno dovuto così, fino dall’inizio, pensare alla creazione e [continua ..]


6. L’informazione legale: il ruolo dell’avvocata

Come già detto, le donne che si rivolgono ai CAV hanno subìto le più diverse forme di violenza (fisica, psicologica, economica, sessuale) spesso nell’ambito della famiglia, o di relazioni parentali o di amicizia. Il colloquio con l’avvocato può essere chiesto dalle donne o proposto dalle operatrici: è un mo­mento di consulenza gratuito offerto dalle avvocate dei Centri a titolo di volontariato. Di regola, la donna accede all’incontro con l’avvocato dopo almeno due colloqui con le operatrici: si cerca di evitare che l’accesso al Centro sia finalizzato esclusivamente all’ottenimento di una consulenza legale gratuita. L’avvocata che opera nel CAV svolge il proprio lavoro e offre la propria professionalità, con la consapevolezza e il vincolo di lavorare in sintonia con la metodologia comune. Così, è indispensabile rafforzare le donne, renderle consapevoli dei propri diritti, rappresentare loro che, anche se non hanno un lavoro extra-domestico, il loro lavoro nell’ambito della famiglia ha pari dignità di quello esterno, e come tale è riconosciuto dalla legge, cosicché il marito ha il dovere di mantenere i figli, e lei, anche in caso di separazione. È molto frequente, infatti, che le donne che accedono al colloquio con il legale, riportino quanto loro riferito dal partner, ritengano di non avere la possibilità di separarsi e di tutelarsi davanti all’autorità giudiziaria, in quanto alla loro mancanza di reddito e di risorse di tipo economico consegue necessariamente la “perdita “dei figli. Altrettanto importante e necessario è spiegare alla donna che la casa coniugale, anche se di proprietà del marito, non sarà necessariamente assegnata a questi, e che lei non dovrà allontanarsene, se i figli saranno collocati presso di lei. È chiaro che la l. n. 54/2006, che ha introdotto come regola l’affidamento condiviso, ha decisamente, e forse inevitabilmente, condizionato l’atteggiamento dei giudici. L’affidamento condiviso, come noto, è adesso la regola, e l’affidamento esclusivo l’eccezione: tut­tavia, l’affido condiviso può essere in aperta contraddizione se applicato a nuclei familiari nei quali è esercitata la violenza. L’affidamento condiviso presuppone infatti una condivisione di compiti [continua ..]


7. Una esperienza concreta: il Centro antiviolenza “La Nara” di Prato

Tra il 2011 e il 2015 ben 1.215 donne sono state prese in carico dalle operatrici del Centro Antiviolenza La Nara, di Prato: in rapporto alla popolazione femminile residente significa 13,6 donne ogni 1.000, tra i 15 e i 69 anni residenti nella provincia di Prato. Le italiane rappresentano il 71%, le straniere il 29%. Il 33% delle straniere ha fino a 29 anni e solo il 27% ha più di 40 anni. Tra le italiane la fascia di età più rappresentata è quella tra 40 e 49 anni (29%). La violenza rilevata più frequentemente è quella psicologica (84%), seguita da quella fisica (65%). Poi la violenza economica (28%), sessuale (10%), stalking (9%), molestie sessuali (1%) e mobbing (0,4%). Il 70% delle donne dichiara di essere vittima di più tipi di violenza. Il principale artefice della violenza è il partner (61%). Nel 19% dei casi l’aggressore è invece l’ex partner, nel 9% un parente e nel 5% un conoscente. Solo nell’1% l’aggressore è uno sconosciuto. Tra le donne 30-49enni che si sono rivolte al Centro dopo essere state vittime di violenza da parte del partner, il 72% ha uno o più figli che assistono al maltrattamento. Esiste il rischio trasmissione intergenerazionale del fenomeno: i dati Istat evidenziano la relazione esplicita tra vittimizzazione vissuta e/o assistita da piccoli e comportamento violento. Alla maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente o di prevenirle si affianca anche una maggiore consapevolezza della violenza subita. Tra le donne in carico al Centro, vittime di violenza da parte del partner o dell’ex partner, il 32% ha sporto denuncia. Le donne seguite nel corso del 2015 dal Centro antiviolenza La Nara di Prato sono 380, di cui 225 nuove utenti (il 59% del totale).


8. Alcuni dati sul costo sociale-economico della violenza al 2013 – Indagine INTERVITA ONLUS con patrocinio Dipartimento Pari Opportunità