Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
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Le cause di nullità del matrimonio canonico di natura psichica: profili giuridici (di Alberto Quagliotto (Avvocato Rotale))


SOMMARIO:

1. Consenso matrimoniale e can. 1095 - 2. La mancanza di sufficiente uso di ragione ed il grave difetto di discrezione di giudizio - 3. L’incapacità di assumere gli oneri coniugali - NOTE


1. Consenso matrimoniale e can. 1095

Con un sintetico azzardo, mutuato dalla celebre domanda retorica dell’abate giacobino Sieyès, si può affermare che nel diritto matrimoniale canonico il consenso ... c’est tout [1]. La sua anomalia implica la nullità di quel contratto matrimoniale, che le parole ed i segni (con presunzione iuris tantum [2] avevano invece indicato come apparentemente sorto nell’ordina­mento della Chiesa. Più precisamente, è all’assenza di un consenso pieno o al difetto di un consenso genuino che si ricollega la nullità del matrimonio. Con il primo concetto intendiamo un consenso consapevole, ma volutamente limitato nei suoi contenuti essenziali da uno o da entrambi i contraenti e che dà perciò luogo al fenomeno della simulazione, totale o parziale [3]; con il secondo intendiamo il difetto del consenso dovuto a cause intrinseche, di origine psicologica, non dipendenti dalla volontà del nubente stesso. A questa seconda categoria, che ha trovato la sua positivizzazione nel can. 1095 del Codice di Diritto Canonico, intendiamo porre la nostra attenzione [4]. È il canone che significativamente apre il capitolo rubricato “De consensu matrimoniali”, la cui ermeneutica è fucina sempre accesa, sia per la Dottrina, sia per la Giurisprudenza Rotale.   Can. 1095 – Sunt incapaces matrimonii contra­hendi: 1.   qui sufficienti rationis usu carent;   2.   qui laborant gravi defectu discretionis iudicii circa iura et officia matrimonialia essentialia mu­tuo tradenda et acceptanda;   3.   qui ob causas naturae psychicae obligationes matrimonii essentiales assumere non valent.   Can. 1095 – Sono incapaci a contrarre matrimonio: 1.   coloro che mancano di sufficiente uso di ragione;   2.   coloro che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente;   3.   coloro che per cause di natura psichica, non pos­sono assumere gli obblighi essenziali del ma­tri­monio.     Il canone considera quindi tre casi di incapacità naturale che, singolarmente considerati, fanno riferimento a tre fenomenologie psichiche [continua ..]


2. La mancanza di sufficiente uso di ragione ed il grave difetto di discrezione di giudizio

La prima, ossia la mancanza di sufficiente uso di ragione, risulta di agevole comprensione. L’uso di ragione, facoltà della sfera intellettivo-cognitiva dell’uomo [5] è essenziale perché si possa parlare di un atto veramente umano, ossia imputabile ad un soggetto. Poco importa se la sua mancanza dipenda da cause permanenti (ricollegate a vere e proprie patologie), o transitorie (ebbrezza, droga, assunzione di farmaci, ecc.), oppure sia indotto da cause volontarie. Si noti, tuttavia, che il canone parla di “sufficiente” uso di ragione, e non di una completa mancanza: ciò rende meno scolastica di quel che si pensi l’applicazione della norma. Infatti, il giudice ogni qualvolta si agiti nel foro tale questione dovrà individuare la in/sufficienza con riferimento agli elementi minimi essenziali (ricordati dal can. 1096 [6] di un contratto di tanta rilevanza ed importanza, come è il matrimonio. È così che, in una non risalente sentenza rotale, si è potuto trattare di un tale difetto non in rapporto ad una persona sofferente di una patologia clinicamente classificata, bensì ad un soggetto che, al momento dell’espressione del consenso avanti il parroco, si era presentato apparentemente lucido ma invero alterato da una infelice combinazione tra i postumi di una potatio alcoholica, di per se non importante, e l’assunzione di un noto farmaco analgesico, che lo aveva portato a comportarsi come un automa. Molto più interessanti, però, risultano le fattispecie di cui ai nn. 2 e 3 del can. 1095. Mentre infatti il primo numero già trova radici nell’antica dottrina [7] ed emana da principi giuridici collaudati, queste, invece, si possono definire come la positivizzazione della giurisprudenza rotale degli ultimi decenni, degli studi scientificamente probati delle moderne scienze psicologiche, psichiatriche ed antropologiche, nonché degli approfondimenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, che ha messo in adeguata luce l’elemento spiritualistico e personalistico del rapporto coniugale. Se, da un lato, il solido fondamento della dottrina tomistica ci ricorda che l’uomo è di regola intelligente e libero, signore delle sue facoltà intellettive e volitive; dall’altro, le indagini delle scienze moderne soccorrono il diritto nella individuazione dei casi [continua ..]


3. L’incapacità di assumere gli oneri coniugali

Il numero 3, l’impossibilità per cause di natura psichica di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, codifica il principio per cui è mortalmente viziato il consenso di colui che vuole ciò che non è in grado di assumersi. Normalmente, in virtù dell’unitarietà della psiche umana, essa si accompagna, come conseguenza necessaria al n. 2, poiché lega l’incapacità non a qualsiasi causa, ma a cause di natura psichica, che di norma sono le medesime che hanno determinato il difetto di discrezione di giudizio. A rigore, e a differenza di quest’ultimo, essa però tocca il con­senso nel suo momento volitivo e non in quello intellettivo, logicamente previo (per il sopra ri­cordato principio del nihil volitum nisi praecognitum); per tale motivo questo capo di nullità con­cettualmente possiede la sua autonomia, e non raramente come tale viene invocato. Orbene, ciò che non può assumersi per cause di origine psichica svuota di ogni valenza la vo­lontà del soggetto. La norma è chiara ed intuitiva. Una persona (che in astratto possa anche es­sere in possesso, sul versante intellettivo, di una sufficiente capacità critica) può però trovarsi nella condizione psicologica di non essere in grado di assumersi – ponendole in atto, materia­lizzandole, quindi, attraverso la volontà – le obbligazioni essenziali del matrimonio. È sì l’espressione, come si suol leggere, dell’antico brocardo per cui ad impossibilia nemo tenetur, ma è anche molto di più, perché l’impossibilità, di cui si tratta, non è una qualunque impossibi­lità della più varia origine, ma solo quella che si ricollega a cause psichiche. Ciò giustifica anche la terminologia: se infatti il Legislatore avesse voluto indistintamente comprendere tutti i casi di impossibilità, avrebbe forse preferito il più semplice verbo “adempiere”, piuttosto che il ver­bo “assumere”. Il matrimonio è il patto con cui i coniugi donano se stessi reciprocamente: nes­sun valore può avere il consenso di chi non è in grado di donarsi, di dare se stesso all’altro. Non a caso, la norma nasce (ed anch’essa trova la sua radice nella produzione giurisprudenziale [continua ..]


NOTE