Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
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L'impugnazione del riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio alla luce della recente giurisprudenza (di Alberto Figone. Avvocato in Genova - Direttore scientifico della scuola di Alta formazione dell’AIAF “Milena Pini”)


La Corte costituzionale con sentenza n. 272 del dicembre 2017 evidenzia come il favor veritatis non rappresenta un valore di rilevanza costituzionale assoluta, dovendo il giudice procedere ad un’adeguata comparazione con l’effettivo interesse del minore. L’autore evidenzia che la disciplina dell’impugnazione del riconoscimento, come quella di tutte le azioni di stato non si esaurisce con l’accertamento circa l’esistenza o l’inesistenza di un legame di sangue tra padre e figlio. Un “convitato di pietra” è rappresentato sempre dall’interesse del minore, di cui si contesta la paternità. La riforma sulla filiazione ha avuto il pregio di sdoganare una corrispondenza biunivoca tra status filiationis e vincolo genetico, con l’imposizione al giudice di accertamenti caso per caso, valorizzando nel contempo anche l’idoneità genitoriale sia del c.d. genitore sociale, sia di chi ha un legame di sangue con il figlio: il tutto in una rinnovata concezione della relazione di filiazione e della connessa responsabilità genitoriale.

The Constitutional Court, with decision n. 272 of December 2017, stresses that favor veritatis does not represent a value of absolute constitutional relevance, as the court must proceed to make an appropriate comparison with the minor’s actual interest. The author points out that the regulation on challenging recognition, like that on all state actions, does not end with ascertainment as to whether or not a blood relationship between father and son exists. A “stone guest” is always represented by the interest of the minor whose paternity is contested. The filiation reform has had the benefit of legitimizing a bi/univocal correspondence between status filiationis and the genetic bond, with the imposition upon the court of case-by-case verifications, while at the same time also valuing the parental suitability of both the “social parent” and of the one that has a blood bond with the child: all this takes place in a renewed conception of the relationship of filiation and the related parental responsibility.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. Il termine decadenziale di un anno - 3. Legittimazione attiva tra disconoscimento di paternità e impugnazione del riconoscimento - 4. L’interesse del minore e il c.d. favor veritatis - NOTE


1. Introduzione

La riforma della filiazione del 2012-2013 ha comportato rilevanti modifiche all’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità, di cui all’art. 263 c.c., mentre immutate sono rimaste le altre due fattispecie impugnatorie, peraltro raramente applicate nella pratica (per violenza, ovvero interdizione giudiziale). Il legislatore ha infatti cercato, nei limiti del possibile, di unificare le due azioni demolitive dello status filiationis paterno (disconoscimento di paternità e impugnazione del riconoscimento), a seconda che la nascita sia avvenuta o meno da donna coniugata [1]. Come è noto, in precedenza l’impugnazione del riconoscimento del figlio “naturale” era espres­samente qualificata come imprescrittibile; ciò dava luogo ad un’intrinseca instabilità dello status, soggetto ad essere caducato senza limiti in caso in cui fosse accertato il difetto di un corrispondente legame di discendenza genetica. Al contrario, l’azione di disconoscimento è stata sem­pre soggetta a rigorosi termini decadenziali per i soggetti legittimati al suo esperimento. Ciò in nome di esigenze di stabilità di uno status, rimasto pur sempre privilegiato anche dopo la riforma del 1975, e, quindi, del perseguimento dell’assoluto interesse del figlio, anch’egli soggetto a termini di decadenza per l’esercizio dell’azione. In oggi, il novellato art. 263 c.c. riserva l’im­prescrittibilità alla sola azione proposta da chi è stato riconosciuto, e identico regime è previso per l’azione di disconoscimento di paternità proposta dal figlio. Lo status è quindi divenuto disponibile per il figlio (a prescindere dal fatto che la nascita sia avvenuta all’interno, ovvero al di fuori di un matrimonio). Questi infatti potrà decidere se e quando agire per contestare il proprio status filiationis, senza incorrere in preclusioni temporali. Colui che ha effettuato il riconoscimento, come pure i terzi interessati sono invece soggetti a decadenze, ancorché il testo del­l’art. 263 c.c. non brilli certo per chiarezza; quel che è certo è che l’azione non può essere proposta decorsi cinque anni dall’annotazione del riconoscimento, che si intende impugnare.


2. Il termine decadenziale di un anno

In base al 2° comma dell’art. 263 c.c. colui che ha effettato il riconoscimento è assoggettato ad un ulteriore termine decadenziale, pari ad un anno e decorrente dal giorno del riconoscimento, ove il padre fosse già consapevole del mendacio da lui posto in essere, ovvero dalla scoperta di non essere il genitore biologico, per accertata impotenza di generare, ovvero per aver appreso del­l’esistenza di altre relazioni della madre del nato all’epoca del concepimento. Da tanto emerge come il legislatore solo in via indiretta abbia risolto il problema assai sentito nella pratica dei falsi riconoscimenti per compiacenza, sui quali la giurisprudenza aveva assunto posizioni differenziate prima della riforma. Da un lato si riteneva infatti che, essendo l’impugnazione del riconoscimento imprescrittibile, essa avrebbe potuto essere esperita anche da chi fosse consapevole della falsità del riconoscimento stesso quando venne posto in essere (fatta salva la configurabilità degli estremi del reato di cui all’art. 495 c.p.) [2]. In senso contrario, la fattispecie era equiparata ad una vera e propria revoca, esclusa dall’art. 256 c.c., con conseguente inammissibilità della relativa domanda [3]. La Corte di Cassazione, per parte sua, aveva avuto a propugnare il primo orientamento in un precedente ormai risalente [4]. In oggi, dunque, un riconoscimento effettuato con la conoscenza della sua falsità, può essere impugnato dall’autore, purché entro il termine decadenziale di un anno dall’atto stesso.


3. Legittimazione attiva tra disconoscimento di paternità e impugnazione del riconoscimento

Permane la differenza quanto alla legittimazione attiva tra disconoscimento di paternità e impugnazione del riconoscimento; la prima infatti compete ai soli componenti della famiglia matrimoniale (marito, moglie e figlio); la seconda è estesa, oltre che alle parti direttamente coinvolte nel riconoscimento (genitore e figlio), anche a coloro che abbiano uno specifico interesse (patrimoniale, ma anche non patrimoniale) alla rescissione di un rapporto di filiazione non veritiero; tra costoro rientra anche la madre, a prescindere da un eventuale suo consenso al riconoscimento da parte di chi vi aveva provveduto, per il caso di figlio infraquattordicenne. Si tratta di un atteggiamento di sfavore verso la filiazione non matrimoniale, suscettibile di essere messa in discussione anche da soggetti estranei alla famiglia nucleare, per lo più mossi da fi­nalità speculative (eliminazione di un figlio “spurio” dalla successione, piuttosto che dall’assol­vimento dell’obbligazione alimentare). Per bilanciare detta disparità di trattamento, la giurisprudenza peraltro tendeva a gravare i terzi di un onere probatorio quanto mai arduo, richiedendo la dimostrazione dell’assoluta impossibilità di concepimento, senza nemmeno trarre dal­l’eventuale rifiuto di una o di entrambe le parti a sottoporsi ad accertamenti peritali, i gravi ele­menti di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c., come avviene nelle altre azioni di stato [5]. La prova finiva così per divenire quasi diabolica. Solo in seguito alla costituzione di un unico status filiationis, si è cominciato a pensare di dover uniformare anche il regime probatorio [6]. In oggi si precisa infatti che i terzi, che intendano impugnare il riconoscimento di figlio, hanno piena libertà di prova e che il rifiuto di sottoporsi ad una CTU da parte degli interessati ben può essere valutato dal giudice [7]. Una recente decisione della Cassazione ha confermato il nuovo indirizzo interpretativo: nella specie veniva impugnato il riconoscimento del figlio nato da soggetto ormai defunto. Il tribunale accoglie la domanda e la Corte d’Appello conferma, per essersi il figlio riconosciuto rifiutato di sottoporsi al test del Dna. La Suprema Corte respinge il ricorso del figlio, sulla base di due argomentazioni. Dapprima si sottolinea come la necessità di “prova [continua ..]


4. L’interesse del minore e il c.d. favor veritatis

Occorre tenere presente che la disciplina delle azioni di stato, ivi compresa l’impugnazione del riconoscimento, non si esaurisce con l’accertamento circa l’esistenza o l’inesistenza di un legame di sangue tra padre e figlio. Un “convitato di pietra” è rappresentato infatti dall’interesse del minore, di cui si contesta la paternità, desumibile dall’attribuzione in capo a lui dei diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., come pure da documenti normativi internazionali, in primis la CEDU, il cui art. 8 riconosce a tutti (minori compresi) il diritto al rispetto della vita familiare. In altri termini, pure quando fosse accertato che tra padre e figlio non vi è legame genetico, non per questo l’azione demolitoria dovrebbe essere accolta. Come ha più volte avuto ad affermare la giurisprudenza, il c.d. favor veritatis non rappresenta un valore di rango costituzionale; esso deve essere contemperato con il contrapposto favor minoris, ossia con il diritto all’identità personale e al rispetto della vita familiare del minore, che vive come tale un genitore, cui è legato da affetti e progettualità, ance se non dalla genetica. In più occasioni, si è così assistito al rigetto di domande, nell’esercizio di azioni di stato, per il fatto che il minore, che per l’età non più tenera, aveva già preso ad identificare le figure genitoriali, avrebbe avuto a subire un danno dalla rescissione di un legame, lasciando libero il figlio, ac­quisita la necessaria autonomia, di decidere al meglio al raggiungimento della maggiore età o quella inferiore, comunque tale da legittimarlo a richiedere al tribunale la nomina di un curatore speciale. Muovendo da tale prospettiva la Corte d’Appello di Milano aveva ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c., per contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 Cost., nel presupposto che la norma censurata non subordinerebbe l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità all’accertamento circa l’interesse del minore a mantenere lo status acquisito. Nella specie la Procura della Repubblica minorile aveva richiesto al Tribunale di Milano la nomina di un curatore speciale per l’impugnazione del riconoscimento [continua ..]


NOTE