Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
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Violenza di genere: gli stereotipi e le parole nel processo penale (di Iacopo Benevieri, Avvocato in Roma)


Nei processi penali per violenza di genere, spesso, sia l'avvocatura che la magistratura fanno ricorso a un linguaggio che riproduce quegli stereotipi di genere diffusi nella società. Ciò accade mediante il ricorso a un preciso lessico, a una specifica forma sintattica delle domande che vengono formulate alle persone offese. Si tratta di atti di micro-potere linguistico attraverso i quali le vittime rischiano d’essere descritte come le reali autrici della violenza subita.

In criminal trials for gender violence, both the courts and the legal profession often use a language that reproduces the gender stereotypes widespread in society. This takes place through their reliance on a precise vocabulary and on a specific syntactical form of the questions posed to injured parties. Through these acts of linguistic micro-power, victims risk being described as the actual perpetrators of the violence they have suffered.

SOMMARIO:

1. Artemisia Gentileschi davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - 2. Gli stereotipi nella violenza di genere: i miti greci e quelli attuali - 3. Gli stereotipi nel linguaggio del processo: un micropotere - 4. Proposta di analisi di una domanda - 5. Conclusioni - NOTE


1. Artemisia Gentileschi davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Alla fine di febbraio del 1612 il pittore Orazio Gentileschi denunciava Agostino Tassi per la violenza sessuale consumata ai danni della figlia Artemisia. Il processo, che iniziò a marzo, terminò sette mesi dopo con la condanna dell’imputato. Nel corso dell’istruttoria numerose testimonianze, soprattutto quelle portate dalla difesa dell’imputato Tassi, convergevano su un denominatore: la descrizione di Artemisia Gentileschi come una donna di facili costumi. «La detta Artemitia io non la tenevo per donna da bene, perché ci venivano in casa delli huomeni [...] e baciavano e toccavano detta Artemitia in presenza mia», così riferiva il garzone Nicolò Bedino, presentatosi spontaneamente al Giudice [1]. Anche il notaio Giovan Battista Stiattesi testimoniò di aver appreso dall’imputato stesso che Artemisia era, per l’appunto, una «donna di gran girandole» [2]. Il sarto Luca Perti il 15 giugno 1612 dichiarò che Artemisia aveva avuto rapporti sessuali con molti uomini; anche il mesticatore Marcantonio Coppino, il successivo 23 giugno, sostenne di aver sentito dire che Artemisia era una prostituta e che il padre Orazio teneva comportamenti inopportuni verso la figlia [3]. La cattiva fama della vittima di violenza era questione giuridicamente rilevante. Infatti nel 1612 la violenza sessuale nei confronti di una donna “disonorata” non era penalmente perseguibile e, pertanto, è facile intuire come la prova di questo fatto apparisse centrale nella difesa dell’impu­tato [4]. Tuttavia il tema della cattiva fama di Artemisia non può essere ridotto a questione squisitamente storica e giuridica. L’esclusione della penale illiceità della violenza sessuale nei confronti di una donna “disonorata” traeva fondamento, evidentemente, da un comune sentire sociale e collettivo, a sua volta nutrito da uno stereotipo, tanto antico quanto perdurante nel tempo. Proprio questo stereotipo è stato oggetto della nota sentenza J.L. contro Italia pronunciata il 27 maggio 2021 dalla Corte EDU, chiamata a pronunciarsi in merito a una vicenda giudiziaria italiana relativa a una presunta violenza sessuale di gruppo: la Corte ha rilevato infatti come la sentenza assolutoria pronunciata il 3 giugno 2015 dalla Corte d’Appello di Firenze, nel ribaltare l’esito del giudizio di condanna in primo [continua ..]


2. Gli stereotipi nella violenza di genere: i miti greci e quelli attuali

Il tema della violenza sessuale, per il fatto di coinvolgere il complesso terreno dei corpi e della sessualità, è stato codificato fin dall’antichità in modo tale che le figure dell’autore e della vittima e le loro dinamiche relazionali hanno costituito veri modelli che son giunti sino a noi. Le principali narrazioni mitologiche dimostrano come ancora oggi la percezione sociale di questo fenomeno sia stata già descritta e narrata nelle fiabe e nei miti. Da quei miti antichi derivano credenze generali sullo stupro, percezioni diffuse, rigide e culturalmente prescritte, che ci raccontano di una vittima colpevole e ci sollecitano a una pacata indulgenza verso l’autore, rafforzando la rappresentazione della donna (così portando la donna a percepire se stessa) unicamente attraverso categorie concettuali prevalentemente maschili [11]. In questi antichi miti il consenso della donna all’atto sessuale viene narrato come un impedimento da superare, come un fattore ostile da dominare con ogni mezzo: i “corteggiatori”, dunque, s’ingegnano in rocambolesche simulazioni e inganni per carpire la sillaba consenziente, in travestimenti e mutazioni della propria identità, finanche in rapimenti [12]. Ricordiamo, solo per citarne alcuni, il mito di Zeus che aiuta l’invaghito Ade nel portare a compimento il sequestro della propria figlia Persefone (Proserpina per i latini), permettendo al rapitore di segregarla nell’oltretomba, luogo nascosto e inaccessibile a chiunque. Ricordiamo la figura mitologica del dio Pan: costui, tra i più astuti e machiavellici violentatori dell’Olimpo, appare all’improvviso nei boschi suscitando improvvisi stati di paura, il c.d. “timor panico”. Gher­misce così le ninfe terrorizzate per possederle [13]. Possiamo dunque ammettere che il ricco compendio mitologico sulla violenza sessuale giunga sino a noi sotto forma di “miti della violenza”, cioè di credenze stereotipate, fallacie cognitive sul fenomeno dello stupro: false credenze sulle vittime, sugli autori, sulle modalità di esecuzione, sui tempi e i luoghi, sulle cause e le circostanze [14]. Come tutti i miti, anche questi sono descrittivi e prescrittivi: descrivono un rigido archetipo di violenza e lo prescrivono come modello di riferimento rispetto al quale vengono confrontati gli specifici fatti di violenza [continua ..]


3. Gli stereotipi nel linguaggio del processo: un micropotere

Il linguaggio offre la possibilità di studiare la storia della società che lo pratica: reca cioè in sé la stratificazione dei significati attribuiti alle parole nel corso del tempo, la sedimentazione di mitologie, fiabe, fantasie, paure, aspettative, idee, giudizi, inclusioni ed esclusioni. Il linguaggio rivela e costruisce il pensiero, è depositario di una visione della società e la impone ai consociati. Conseguentemente il linguaggio è necessariamente canale prioritario di esercizio del potere e dei poteri (pubblici e privati) da parte di istituzioni, apparati, gruppi, individui, modelli dominanti: il linguaggio è il potere di proporre unitari schemi culturali e di fondare su di essi la coesione sociale, di costituire valori nei quali si riconosce la comunità. Uno dei temi sui quali il linguaggio maggiormente determina, costituisce, fonda ruoli e relazioni sociali è certamente il tema dei corpi e della sessualità. Nel linguaggio si sono incastonate le strutture storiche dell’ordine maschile, travestite da sche­mi inconsci di percezione e di valutazione [19]: «La lingua quotidiana riflette e amplifica una divisione già di per sé così netta come quella sessuale, e il predominio dei ruoli maschili impronta di sé anche la nostra concezione della lingua: infatti quella che viene sempre assunta come forma ‘normale’ di una lingua è proprio quella usualmente parlata dagli uomini [...] le differenze femminili sono sempre state registrate come uno scarto rispetto alla norma» [20]. Il ruolo dei soggetti istituzionali (politica, cultura, giustizia) nella comunicazione è dunque estre­mamente rilevante nella perpetrazione di una visione androcentrica del fenomeno della violenza nei confronti della donna. Dunque, come le parole descrivano i rapporti di potere tra uomo e donna, soprattutto nell’ambito delle relazioni personali e intime, è questione che necessariamente coinvolge il processo penale. Possiamo sottolineare innanzitutto come il codice di procedura penale, che regola un evento linguistico quale è il dibattimento, non si disinteressa certamente del modo con cui viene utilizzato il linguaggio, soprattutto con riferimento al tema della formulazione delle domande. Nella consapevolezza del fatto che la Parola è Potere, e pertanto può incidere direttamente nella [continua ..]


4. Proposta di analisi di una domanda

Prenderemo adesso in esame una trascrizione tratta da un processo penale nei confronti di un imputato per il reato di violenza sessuale. Si tratta di una domanda formulata in sede di controesame dal difensore dell’imputato alla persona offesa, una ragazza. Questa la domanda: «L’imputato ... Le piaceva, no?». Sotto un profilo di composizione del testo si tratta di una domanda chiusa, appartenente alla categoria delle c.d. “domande polari” o “domande totali”. A differenza delle domande c.d. “aperte”, nelle quali si lascia ampia libertà alla persona interrogata nella risposta («Cosa è accaduto quella sera?»), le domande polari contengono un intero enunciato in forma assertiva, per cui obbligano a rispondere in termini affermativi o negativi (“Sì/No”, “Confermo/Non confermo”) [25]. Nel frammento in esame l’avvocato formula alla persona offesa non già una richiesta di informazioni, bensì una mera ratifica dell’informazione già contenuta nella domanda («L’imputato Le piaceva»). Questa informazione, proposta in forma assertiva e dunque alla stregua di mera constatazione di un dato presentato come oggettivo, esercita una funzione suggestiva, condizionante la risposta. La domanda formulata dal difensore, inoltre, appartiene alla categoria delle c.d. “domande-coda” o “tag questions”. Sono quelle domande che contengono sì un enunciato in forma assertiva, ma seguito da una breve clausola interrogativa con la quale si chiede alla persona interrogata l’adesione a quel contenuto. Le clausole finali possono essere di vario tipo, come “giusto?”, “vero?”, “non è così?”, “sbaglio?” e altre simili. Nella letteratura linguistica e di analisi conversazionale si evidenzia la apparente funzione di cortesia assolta da questo tipo di domanda [26]. In realtà nell’ambito forense, e in particolare nello specifico contesto del controesame, la domanda-coda presenta una forte efficacia coercitiva, in quanto la coda si configura come un invito esplicito a fornire una conferma alla parte assertiva dell’enunciato [27]. La richiesta di adesione all’enunciato, benché ad alto valore condizionante, è tuttavia difficilmente rilevabile dalla persona interrogata perché [continua ..]


5. Conclusioni

Le aule di udienza e, talvolta, le sentenze sono luoghi di propagazione, spesso in modo del tutto inconsapevole, di stereotipi sessisti. Questo fatto produce necessariamente effetti sociali, il primo dei quali è il rafforzamento ufficiale delle disparità di genere in quanto realizzato attraverso atti provenienti da soggetti e spazi istituzionali. Assumere consapevolezza della fitta tessitura tra linguaggio e processo penale significa in primo luogo acquisire coscienza dell’ineliminabile necessità di una quota di potere nella dinamica linguistica in aula. Nel processo penale e in particolare nel dibattimento, infatti, l’interazione comunicativa tra testimone/imputato/persona offesa e soggetto interrogante è diseguale: ai primi, che dispongono di limitati poteri linguistici (hanno l’obbligo di rispondere, possono essere interrotti nella risposta, non hanno diritto di scegliere il tema di “conversazione”), si contrappongono le figure istituzionale (Giudice, Pubblico Ministero, avvocata/avvocato) che hanno un forte potere nell’interazione (formulano le domande, possono interrompere la risposta, scelgono i temi sui quali far vertere la “conversazione”) [30]. È di tutta evidenza che questa architettura diseguale ha una precisa giustificazione, quella di perseguire gli scopi costituzionali del processo: l’accertamento di eventuali fatti illeciti. Tale obiettivo non può essere certamente conseguito se non calibrando la conversazione in aula secondo una distribuzione diseguale dei diritti e dei poteri interazionali: se testimoni e consulenti potessero sottrarsi all’esame, rifiutarsi di rispondere o addirittura mentire, l’amministrazione della giustizia verrebbe inesorabilmente pregiudicata. È tuttavia urgente che tutti coloro che hanno ruoli istituzionali nell’aula di udienza, titolari dunque di una funzione “dominante” nella interazione processuale, siano consapevoli del fatto che l’esercizio delle loro legittime e irrinunciabili facoltà (per es., formulare le domande, finanche suggestive per verificare legittimamente la credibilità del soggetto dichiarante) potrebbe ampliare ulteriormente l’asimmetria quando l’interlocutore debole rechi con sé una propria ori­ginaria vulnerabilità. Tale consapevolezza risulta ancor più urgente con riferimento ai [continua ..]


NOTE