Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
G. Giappichelli Editore

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Parte III – il femminicidio. Mille modi di morire in quanto donne (di Federica Panizzo *(Avvocato in Diritto penale del Foro di Verona)  )


SOMMARIO:

1. Definizione di femminicidio e critica terminologica all'utilizzo di tale locuzione - 2. Gli spazi e i modi della discriminazione di genere nel diritto penale e nella criminologia - 3. La donna sottoposta al controllo formale e informale nella società - 4. Il gesto, le parole e le immagini: strumenti attuativi della discriminazione e violenza di genere - 5. Oggettività giuridica nei delitti di discriminazione e violenza di genere: la dignità della donna, il diritto alla propria identità - 6. Il razzismo come strumento di occultamento della violenza - 7. Conclusioni - NOTE


1. Definizione di femminicidio e critica terminologica all'utilizzo di tale locuzione

I termini “femminicidio” o “femicidio” stanno ad indicare un insieme più o meno ampio di comportamenti discriminatori o violenti posti in essere nei confronti delle donne “in quanto donne”, ovvero come «forma di esercizio di potere maschile sulla psiche e/o sul corpo di donne e lesbiche, potere volto ad annientare la vita, la libertà, la personalità, qualora non si adeguino al modello sociale proposto» [1]. Per analizzare esaustivamente il fenomeno va, preliminarmente, osservato come sia utile una sintetica analisi dell’origine dei termini, chiarendo i distinti significati di “femminicidio” e “femicidio”, parole che i più considerano come vocaboli equivalenti (se non meri errori di carattere ortografico), ma che sono in realtà densi di significati, simili ma diversi nei loro caratteri peculiari. Il maggiore motivo di incomprensione deriva dalla traduzione della locuzione “femicide” [2]. Nei paesi anglofoni, infatti, il termine “Femicide” viene utilizzato in maniera interscambiabile con il termine “Femminicidio”. Nel corso degli anni questi vocaboli hanno assunto significati diversi e per comprenderli nella loro compiutezza serve analizzare le opere delle studiose che, per prime, li hanno affrontati: Diana Russell e Marcela Lagarde [3]. Va osservato, come le nuove categorie concettuali elaborate del femicide e del femminicidio, abbiano consentito di approfondire la concreta dimensione del fenomeno dei crimini contro le donne attraverso un uso sessuato degli strumenti scientifici, e dunque anche giuridici, di interpretazione del dato di realtà. Deve notarsi come, da un punto di vista puramente terminologico, siano state avanzate critiche all’utilizzo del termine “Femminicidio” che viene considerato ghettizzante e riduttivo [4]. In ogni caso, ciò che rileva è che l’intero fenomeno, definito da Lagarde come “Femicidio” e da Russell come “Femminicidio” sia, per poter essere correttamente affrontato, considerato attraverso l’impiego di strumenti scientifici utilizzati in maniera “sessuata”. Anche il “nostro” diritto e la scienza giuridica debbono, quindi, essere declinati secondo tale accezione. L’esatta definizione consente, infatti, di sviluppare e [continua ..]


2. Gli spazi e i modi della discriminazione di genere nel diritto penale e nella criminologia

La discriminazione di genere/sesso è paragonabile, per gli effetti che produce, ad un crimine contro l’umanità. Mi viene spontaneo, prima di enunciarli e sinteticamente analizzarli, identificare gli spazi, i luoghi in cui la donna, in quanto tale, è costretta a subirli, anche da un punto di vista storico [12]. In seguito, serve interrogarsi, a mio modo di vedere, su quali siano i modi in cui essa si manifesta, nonché l’oggettività giuridica che, in una prospettiva pluri-offensiva di analisi dei reati, va individuata, a mio parere, non solo avendo a riguardo allo specifico bene giuridico tutelato dalla norma penale nella disciplina codicistica od extracodicistica – quali ad es quello della tutela della vita, della incolumità psico-fisica, della famiglia, della libertà morale, ecc. – ma anche con riguardo al femminile, e soprattutto alla dignità della persona offesa, ossia la donna in quanto tale, a prescindere dai comportamenti da essa tenuti [13]. Al primo quesito si può rispondere con una elencazione di delitti consumati all’interno delle mura domestiche o con autori di reato conosciuti: gli atti persecutori (art. 612 bis c.p.), le mutilazioni genitali (art. 583 ter c.p.), le violenze sessuali, anche di gruppo (artt. 609 bis ss. c.p.), le minacce (art. 612 c.p.), le ingiurie (art. 594 c.p.), la diffamazione (art. 595 c.p.), il c.d. cyberstalking, il cyberbullismo, i maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), le molestie telefoniche (art. 660 c.p.) o altri reati che possono giungere alla estrema e tragica conseguenza della morte come l’uxoricidio (art. 575 ss. c.p.), l’istigazione al suicidio (art. 580 c.p.), le percosse (art. 581 c.p.), le lesioni personali fisiche e morali (art. 582 c.p.), il sequestro di persona (art. 605 c.p.), commessi per motivi essenzialmente misogini o sessisti, ovvero, riprendendo la definizione sopra citata, in quanto la donna non si è adeguata nel suo vivere al modello sociale precostituito e pensato per lei [14]. Oltre quelli che caratterizzano il fenomeno della c.d. “violenza endofamiliare”, gli spazi delle di­scriminazioni e delle violenze di genere possono essere, secondo la mia riflessione, anche pubblici: il luogo di lavoro, le strutture come quelle pubbliche ospedaliere, i luoghi deputati alla raccolta delle denunce, il carcere, la strada, [continua ..]


3. La donna sottoposta al controllo formale e informale nella società

Va osservato, in una forma estremamente sintetica, come il c.d. controllo sociale informale abbia avuto, da sempre, una speciale rilevanza quando esso si concentra sulle donne. Il controllo che esercita il diritto penale non dovrebbe essere estraneo a quello che innanzi abbiamo descritto come controllo sociale informale. Rispetto al diritto penale potremo dire che tre sono state le critiche rivolte dall’approccio femminista: 1) la definizione della regolazione del delitto che considera la donna come vittima; 2) l’insufficienza del diritto penale nel proteggere la donna; 3) la regolare o irregolare applicazione o non applicazione nei tribunali di determinati delitti contro le donne. L’alleanza della donna con il diritto penale è afferente alla difficile regolazione e normazione dei delitti contro la libertà sessuale. Nel nostro sistema è stato necessario attendere il 1996, con la riforma dei delitti contro la libertà sessuale, per liberarci dall’aggancio, voluto nell’ottica fascista, tra il contegno della donna e la “morale pubblica” [21]. Se analizziamo la struttura della vigente fattispecie penale di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) potremo notare come, nella attuale formulazione, da un punto di vista della materialità del fatto non si distinguano più la violenza carnale dagli atti di libidine violenta, ma si punisce il comportamento di «chiunque compia o costringa con violenza o minaccia taluno a subire atti sessuali». La dimensione del delitto è privata, ma esso può essere considerato, secondo quanto ha compiutamente sottolineato la giurisprudenza, quale reato plurioffensivo che può ledere, non solo la singola persona offesa dal reato, ma anche l’intero contesto sociale che non tollera che siano violati i principi di libera autodeterminazione nella sfera sessuale [22]. Nell’art. 609 bis, ultimo comma, c.p. il legislatore ha previsto una attenuazione di pena per i «casi di minor gravità» [23]. In effetti, siamo in presenza di quella che è stata qualificata come una attenuante indefinita, in quanto tale, pur se comunemente ritenuta non in contrasto con il principio di determinatezza ricavato dall’art. 25 Cost., avrebbe potuto dar luogo ad incertezze interpretative [24]. Va poi osservato come essa non sia soggetta al giudizio di comparazione con [continua ..]


4. Il gesto, le parole e le immagini: strumenti attuativi della discriminazione e violenza di genere

Quando ci si accosta al fenomeno della discriminazione, verso gruppi nazionali, etnici, razziali, religiosi, fondata sull’orientamento sessuale o sulla identità di genere o sesso, riappare la centrale questione del gesto e della parola e della loro potenza specie quando vengono utilizzati in pubblici dibattiti o in manifesti preordinati a svolgere propaganda politica [31]. Si scorda allora che la libera manifestazione di pensiero ha dei limiti, e non serve scomodare il “buon costume” o gli “hate speech” di matrice anglosassone, o i recenti dibattiti americani in occasione delle passate primarie, assai aspri quando si sostengano idee incentrate sul problema del “sovraffollamento del pianeta”. La manifestazione del pensiero investe anche la discriminazione di sesso e/o di genere; e appare allora ancora più semplice banalizzare e ridurre il tutto a battuta folkloristica o ad ostentato machismo, piuttosto che trasformare il sentire in indignazione [32]. Un gruppo di letterate trentine ha dato vita ad una iniziativa su tale aspetto intitolata “le parole non sono neutre”. Queste studiose sostengono che la lingua italiana sia una lingua sessuata, così come il tedesco e lo spagnolo, e spesso il sessismo è tradotto in parole, e si traduce, a sua volta, in discriminazione e quindi in disuguaglianza portatrice in molti casi di violenza. E così è accaduto anche nel nostro paese durante il ventennio fascista lacerato, ancora oggi, tra nord e sud: ripensiamo all’omicidio c.d. “d’onore” (art. 587 c.p. abrogato nel 1981) rispetto al quale, tornando alla indignazione, si assisteva da parte della società civile ad un minor livello di condanna proprio in quanto giustificato dal “sangue, dal suolo, dall’onore”. Tale tipo di impostazione propagandistica portava le donne in Italia a considerarsi depositarie del futuro, della continuità culturale e nazionale, autoalimentando in loro stesse la paura per il “diverso” da loro, lo straniero. Si ritorna, su tali basi ideologiche, e lo fanno anche le donne, soprattutto in determinati periodi storici, a qualificare lo stupro, come ho prima accennato, a strumento di sopraffazione da parte dello straniero che lede non tanto la persona donna e la sua libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale, ma l’integrità culturale della [continua ..]


5. Oggettività giuridica nei delitti di discriminazione e violenza di genere: la dignità della donna, il diritto alla propria identità

Il bene giuridico leso dalle discriminazioni, siano esse razziali quanto di genere, è il medesimo: la dignità umana, il diritto alla differenza ad essere ciò che si è; ed i soggetti passivi sono sempre privati del diritto ad essere ciò che sono, le donne vengono considerate non persone. Come accade per le persone di colore, per gli ebrei o per i camminanti, gli omosessuali, i transessuali, si assiste ad una sorta di ghettizzazione o, talvolta, ad una “gerarchizzazione” delle vittime [36]. Conforme a tale riflessione pare essere quella di una studiosa femminista palestinese che si spinge sino a teorizzare una definizione, con riguardo alle donne nel contesto sociale, inclusiva della c.d. “morte in vita”, ovvero della condizione della donna soggetta a continue minacce di morte, che non può liberarsi da tale condizione [37]. Tale modo di intendere il femminicidio deriva da una argomentazione culturale: quella che il sessismo e le persecuzioni di genere non si riferiscono essenzialmente al rapporto binario uomo/donna o alla relazione tra patriarcato e violenza sulle donne, ma costituiscono la dinamica sociale fondante di un mondo che preserva trattamenti sociali inumani e degradanti. In Italia la legislazione penale, pur non avendo inserito espressamente l’identità di genere come motivo di discriminazione punibile, specie dal 1996, con la riforma dei reati in materia di violenza sessuale, e più di recente con l’introduzione, avvenuta con il d.l. n. 38/2010, del reato di atti persecutori (c.d. “stalking” ai sensi dell’art. 612 bis c.p.) pare avere fornito strumenti adeguati, se correttamente utilizzati, per combattere reati per lo più consumati nei confronti delle donne. Pensiamo, appunto, anche, alle mutilazioni genitali (2006), ai reati c.d. delle nuove schiavitù (1998-2003-2012), al reato che sanziona lo sfruttamento della prostituzione. La donna non si riduce ad essere soggetto passivo di un reato, ma viene colpita dalla violenza discriminatoria in quanto portatrice del «fatto “di essere donna in quanto tale” e valutata non tanto in relazione alle sue qualità, bensì in relazione alla sua identità di sesso e di genere». Forse servirebbe aggiungere alle discriminazioni, che costituiscono l’aggravante della c.d. legge Mancino, anche quelle fondate [continua ..]


6. Il razzismo come strumento di occultamento della violenza

Se esiste una questione femminista che merita di essere approfondita, in una società multirazziale quale è la nostra, è quella dell’intreccio tra l’oppressione basata sul sesso e l’oppressione basata sulla razza, l’etnia, la cultura, che possiamo raggruppare, sinteticamente, con il termine “razzismo”. Va osservato, infatti, come l’oppressione non si iscriva nel corpo astratto di una don­na universale e a-storica. Il termine inglese “intersectionally” ci rimanda all’intreccio intimo tra sistemi di dominazioni diversi, e ci permette di capire meglio la situazione di donne immigrate o appartenenti ad altre culture, e dunque “razzializzate” [42]. Tale termine è un neologismo, che permette di identificare persone individuate e discriminate per le loro caratteristiche somatiche o la loro posizione sociale di immigrati, senza che si faccia ricorso al concetto di razza, concetto superato sul piano scientifico e ormai inaccettabile sul piano politico. Tali intrecci possono essere convenienti per superare e influenzare, seppur in modi diversi, l’esperienza delle donne offese dalle violenze: oltre al sessismo queste devono sopportare anche il razzismo, ad esempio di poliziotti e/o operatori sanitari. Tali plurimi fattori discriminatori rischiano di emarginare queste vittime dalla comunità di appartenenza, tradita dalla denuncia della violenza proposta, e possono incorrere in conseguenze drammatiche quali la espulsione dal paese di immigrazione, laddove il loro permesso di soggior­no sia legato a quello di un marito o di un padre violento. Tale intreccio assume, al fine della nostra riflessione, un particolare rilievo in quanto può essere un ulteriore modo per occultare la violenza del maschile sul femminile. Va infatti osservato che quando una violenza viene compiuta da un uomo di un gruppo o di una cultura minoritaria, tale violenza è considerata come tipica o esclusiva di quella cultura, e non come tipica del patriarcato. Questo tipo di approccio finisce per “naturalizzare” le altre culture, che appaiono come strumenti monolitici, quasi culture-istinto, da cui gli individui non potrebbero prendere le distanze. Tali aspetti aprono, sotto il profilo del diritto penale, interessanti questioni attinenti la effettiva conoscibilità e rimproverabilità [continua ..]


7. Conclusioni

A chiusura di queste considerazioni penso di poter affermare che il diritto penale abbia il compito strutturale di difendere le condizioni obiettive essenziali dell’identità di genere/differenza sessuale, oltre che l’integrità del corpo sessuato. E ancora penso siano particolarmente appropriate, a sottolineare quanto innanzi affermato sulla importanza che anche le associazioni possano costituirsi parte civile in processi penali aventi ad oggetto il c.d. “Femminicidio”, le parole riportate nella recente ordinanza di ammissione di un ente quale parte civile secondo il quale «i delitti per cui si procede (occultamento di cadavere e omicidio della ex fidanzata) costituiscono anche modalità di concreta espressione di una repressione violenta del rifiuto alla soggezione di genere, che come tale trascende l’interesse delle singole parti civili già costituite; essa tende o almeno pare tendere di fatto nel suo complesso, per le obiettive caratteristiche di ripetibilità ed esemplarità che contraddistingue i fatti di sangue che ne segnano le tappe, e quindi se non nella volontà dei singoli autori del reato almeno nella rappresentazione collettiva della minaccia di cui si fa portatrice, alla instaurazione di un clima di intimidazione diffuso; la cui rimozione costituisce interesse collettivo, nel senso che esso è autonomo e diverso da quello delle parti private direttamente interessate; con la conseguenza di dover riconoscere legittima la costituzione di un soggetto che si faccia suo portatore, con dispiegamento di una propria ed autonoma valutazione del processo e dei suoi esiti» [44].


NOTE