Gli autori, partendo da un’analisi delle novità introdotte con la l. n. 3/2018 (c.d. “legge Lorenzin”), analizzano l’impatto che l’emergenza sanitaria ha avuto sul nostro sistema sanitario e sulle categorie più vulnerabili.
Starting from an analysis of the new elements introduced with Law no. 3/2018 (the “Lorenzin Law”), the authors analyze the impact that the health emergency has had on our healthcare system and on the most vulnerable categories.
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1. Premessa: parlare di salute “oggi” - 2. In primis: il contenuto della l. n. 3/2018 (c.d. “legge Lorenzin”) - 3. (Segue). Il Piano per l’attuazione e la diffusione della medicina di genere - 4. La tutela della salute ai tempi del “Covid-19”: alcune riflessioni sulle categorie più vulnerabili - 4.1. (Segue). La condizione femminile e l’emergenza sanitaria - 4.2. (Segue). Pandemia e persone con disabilità - 5. Il ruolo dei medici e la loro responsabilità - 6. Riflessioni conclusive - NOTE
Discutere degli aspetti che circondano, in modo più o meno diretto, il tema della salute (e della sua necessaria tutela ad opera dell’ordinamento statuale) risulta oggi molto più difficile rispetto al passato, in ragione delle molteplici sollecitazioni che la pandemia Covid-19 ha posto sul tavolo del dibattito, in tutti i campi del sapere [1]: da quello più propriamente tecnico (medico-ospedaliero), a quello giuridico, passando per quello filosofico, sociologico e, non meno significativamente, per quello psicologico. All’interno di questa fitta trama di questioni problematiche, lo “sguardo del costituzionalista” non può che concentrarsi su alcuni profili soltanto; profili che, in ogni caso, intrecciano tematiche di assoluto rilievo [2]: la tenuta del diritto alla salute in contesti di emergenza; l’accesso alle cure, in questi stessi contesti, da parte dei soggetti “vulnerabili” e/o “svantaggiati”; la duplice prospettiva (individuale e collettiva) del diritto riconosciuto come “fondamentale” dall’art. 32 Cost.; l’equilibrio tra queste due prospettive; e ancora, la prevalenza del diritto alla salute (collettiva, in particolare) sulle altre posizione soggettive tutelate dalla Costituzione; la complessità dell’operazione di bilanciamento, da parte del legislatore, in questo ambito e, non ultimo, gli spazi e i limiti dell’eventuale controllo da parte della Corte costituzionale sul bilanciamento raggiunto in sede legislativa. Le novità introdotte con la l. n. 3/2018 [3] (c.d. “legge Lorenzin”), in questa prospettiva, offrono alcuni spunti di interesse, su cui è utile soffermarsi prima di concentrare l’attenzione sull’impatto che l’emergenza sanitaria ha avuto sul nostro sistema sanitario e sulle categorie più vulnerabili. Il titolo della relazione proposta nell’ambito del ciclo di seminari organizzati dall’AIAF, a ben vedere, suggerisce di ragionare della tutela della salute “dopo la legge 3 del 2018”, autorizzando quindi una riflessione “a tutto tondo”, su quanto è accaduto, appunto, dopo questa importante novità legislativa e quindi, inevitabilmente, anche sulla pandemia Covid-19. Del resto, anche gli stessi seminari i cui lavori vengono raccolti in questa sede sono stati presentati come un [continua ..]
Una prima importante novità introdotta dalla l. n. 3/2018 riguarda il tema della sperimentazione clinica dei medicinali, nel cui contesto il Parlamento ha conferito un’ampia delega al Governo, successivamente esercitata attraverso il d.lgs. 14 maggio 2019, n. 52 “Attuazione della delega per il riassetto e la riforma della normativa in materia di sperimentazione clinica dei medicinali ad uso umano, ai sensi dell’articolo 1, commi 1 e 2, della legge 11 gennaio 2018, n. 3”. Con questo decreto legislativo, più nel dettaglio, sono state introdotte una serie di novità per quanto concerne le linee guida per una corretta pratica clinica dell’uso dei medicinali in fase di sperimentazione finalizzati all’utilizzo umano. Tra queste, meritano di essere segnalate quelle riguardanti la semplificazione delle procedure per l’utilizzo a scopo di ricerca clinica di materiale biologico o clinico residuo da precedenti attività diagnostiche o terapeutica, oltre a quelle, di cui si dirà più approfonditamente nel prossimo paragrafo, relative alla medicina di genere [5]. Le disposizioni contenute nella c.d. “legge Lorenzin”, adeguando la disciplina italiana alla normativa europea [6], hanno inoltre previsto il riordino e la riduzione dei comitati etici esistenti. In questo stesso ambito, è stato poi istituito un Centro di coordinamento nazionale dei comitati etici territoriali per le sperimentazioni cliniche sui medicinali per uso umano e sui dispositivi medici, con funzioni di coordinamento, indirizzo e monitoraggio delle attività di valutazione degli aspetti etici relativi alle sperimentazioni. Il successivo d.m. 19 aprile 2018 del Ministro della Salute ha specificato le attribuzioni di questo Centro di coordinamento, chiamato in particolare a svolgere funzioni di supporto, di consulenza e di monitoraggio con riferimento all’attività dei comitati etici territoriali [7]. La l. n. 3/2018 ha poi individuato un tetto massimo nel numero dei comitati etici territoriali: quaranta unità, di cui almeno uno per ogni regione, e il riconoscimento di tre comitati etici a valenza nazionale, di cui uno riservato alla sperimentazione in ambito pediatrico. L’art. 2, 7° comma, della l. n. 3/2018 ha stabilito, inoltre, le modalità per la revisione dei comitati etici, la quale avrebbe dovuto completarsi [continua ..]
Ai nostri fini, l’elemento più rilevante della l. n. 3/2018 è contenuto nell’art. 3, 1° comma, e riguarda la c.d. medicina di genere [11]: con questa previsione, il legislatore ha incaricato il Ministero della Salute di approvare un Piano per la diffusione della medicina di genere, attraverso la divulgazione, la formazione e l’indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere, con l’obiettivo ultimo di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in modo omogeneo sul territorio nazionale. Per approvare il Piano, come esplicitato nel 2° comma, art. 3, il Ministero è stato chiamato ad utilizzare un «approccio interdisciplinare tra le diverse aree mediche e le scienze umane». In osservanza di questo e degli ulteriori criteri guida indicati dalla l. n. 3/2018, il Ministero della Salute, nella primavera del 2019, ha approvato il “Piano per l’attuazione e la diffusione della medicina di genere”, avvalendosi del supporto del Centro di Riferimento per la Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità e della collaborazione di un Tavolo tecnico-scientifico nazionale di esperti regionali in medicina di genere e dei referenti per la medicina di genere della rete degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS). La prima parte del Piano, di inquadramento generale, contiene una spiegazione della nozione di medicina di genere, una illustrazione degli ambiti prioritari d’intervento e la sottolineatura dell’importanza di un approccio di genere in sanità per una centralità della persona. In questa prima parte del Piano, è quindi evidenziato che le diversità nei generi si manifestano, in particolare, nei comportamenti, negli stili di vita così come nel vissuto individuale e nel diverso ruolo sociale; nello stato di salute, nell’incidenza di molteplici patologie, croniche o infettive, nella tossicità ambientale e farmacologica, nelle patologie lavoro correlate, salute mentale e disabilità, in tutte le fasce di età (infanzia, adolescenza, anziani) e in sottogruppi di popolazione svantaggiati; nel ricorso ai servizi sanitari per prevenzione (screening e vaccinazioni), diagnosi, ricovero, [continua ..]
Per introdurre queste riflessioni, è necessario ricordare che, ai fini del contenimento dell’emergenza sanitaria, le più importanti libertà costituzionali sono state congelate, con una modalità mai sperimentata nella storia della Repubblica, per garantire il diritto alla salute, in particolare alla salute collettiva. Le anomalie che hanno caratterizzato la reazione delle Istituzioni italiane alla pandemia sono numerose e non possono essere esaminate in questa sede con il necessario livello di approfondimento [17]: è utile soltanto rimarcare – nel solco di quanto argomentato nel parere del Comitato nazionale di bioetica del maggio 2020 – «Covid-19: salute pubblica, libertà individuale, solidarietà sociale» – che «la pandemia e le misure prese per contenerla rendono evidente la vulnerabilità di tutti, ma creano anche forme nuove di vulnerabilità economica e sociale, così come esacerbano condizioni di particolare vulnerabilità già esistenti». Ed è proprio tenendo a mente questa considerazione di ordine generale che è possibile ragionare, più specificatamente, di alcune di quelle categorie che hanno subito in modo più grave – proprio sul versante della tutela della salute – le conseguenze dell’emergenza sanitaria: le donne, da una parte, e le persone con disabilità, dall’altra.
Come già ampiamente osservato [18], durante i mesi della pandemia, un dato è emerso con forza nel dibattito pubblico: nei luoghi decisionali e anche nel mondo scientifico, a livello sia nazionale che globale, le donne sono sembrate scomparse. È un dato molto preoccupante, che merita di essere indagato a fondo [19]; in questa sede, però, vorremmo concentrare l’attenzione su un fatto diverso, benché correlato a questo primo: la forzata reclusione delle donne nelle proprie abitazioni ha avuto un impatto sulla violenza domestica, la quale, a sua volta, ha un evidente e gravissimo impatto sulla salute (fisica e psicologica) della donna. La situazione di emergenza, infatti, è andata paradossalmente a rafforzare proprio i due elementi fondanti la violenza relazionale: l’isolamento della donna dalle sue aree di vita (familiare, amicale, lavorativa e sociale) e il controllo dell’uomo sulle azioni e le scelte della partner. Questa convivenza, ininterrotta per i primi mesi di lockdown, ha creato nelle donne dei forti vissuti di stress e di impotenza, a cui nei casi in cui ci siano figli, si va anche ad aggiungere un gran sovraccarico nel lavoro di cura dei bambini. In questo contesto, a partire dai primi provvedimenti che hanno imposto l’obbligo di stare a casa, i centri antiviolenza si sono immediatamente mobilitati e hanno deciso di offrire comunque un servizio per mantenere il contatto o creare il legame, con quelle donne costrette a vivere in casa, il luogo più familiare e al tempo stesso il più pericoloso. Da qui la decisione di moltissimi Centri antiviolenza italiani di continuare ad offrire i servizi di supporto da remoto, oltre che garantire la gestione delle case rifugio. Sul numero delle richieste avanzate nei mesi di lockdown ci sono purtroppo dati contrastanti: in alcuni casi si afferma che sia leggermente calato, in altri invece si denuncia un aumento. A cambiare, però, sono soprattutto le tematiche portate dalle donne all’attenzione degli operatori. Dalle esperienze raccontate dagli operatori, sembra che ci sia un gran bisogno delle donne di essere ascoltate nella consapevolezza di dover gestire una situazione continua di convivenza senza un apparente rimedio. In questa situazione le istituzioni hanno attivato strumenti come un numero di telefono collegato con la polizia a cui chiedere supporto [20], ma non è stata definita una [continua ..]
L’emergenza sanitaria ha avuto gravi ripercussioni su un’ulteriore categoria di persone, che anche in condizioni ordinarie, nonostante una normativa sempre più attenta alle loro esigenze [21], subisce sovente trattamenti discriminatori: le persone con disabilità. Dopo un primo tempo di generale indifferenza all’impatto della pandemia sulla condizione di queste persone, la tragica vicende delle “RSA”, da un lato, e l’instancabile impegno del mondo dell’associazionismo, dall’altro, hanno riportato all’interno del dibattito politico e pubblico proprio il tema del rapporto tra l’emergenza Covid e la disabilità. Si è quindi cominciato a comprendere che le persone con disabilità hanno affrontano un rischio maggiore del resto della popolazione, perché in molti casi abbondonati ad un destino di solitudine e isolamento: l’interruzione dei servizi di supporto, le condizioni di salute preesistenti (con il rischio di sviluppare malattie gravi, anche letali), l’esclusione dalle informazioni sulla salute, nonché le difficoltà legate alla fornitura di servizi sanitari tradizionali e alla distribuzione dei sistemi di protezione individuali hanno infatti pesato in modo gravissimo su queste persone. Per non parlare dei casi in cui le persone con disabilità hanno contratto l’infezione, con il rischio di vedersi negato l’accesso al pronto soccorso e alle strutture ospedaliere; molte delle persone con disabilità contagiate sono morte “sole”, nelle loro abitazioni o nei servizi residenziali, perché, nelle fasi più difficili dell’emergenza, la priorità è stata data alle persone in grado di essere ricoverate senza ulteriori complicazioni. Peraltro, in alcuni casi, come molte associazioni hanno giustamente denunciato con forza [22], la morte di queste persone non è rientrata neppure nel conteggio dei “decessi Covid” perché a queste stesse persone è stato negato anche il diritto alla diagnosi, prima ancora che al trattamento e alla cura. A fronte di questo quadro, non deve sorprendere che, il 9 aprile 2020, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha pubblicato una guida orientativa per invitare gli Stati ad adottare misure adeguate per affrontare i rischi, [continua ..]
I ragionamenti proposti nelle precedenti pagine si intrecciano, in modo molto stretto, con una ulteriore tematica, che le perduranti difficoltà legate alla diffusione del virus hanno riproposto con forza al centro del dibattito (politico e scientifico): la responsabilità dei medici – e, più in generale, degli operatori sanitari – al tempo del Covid-19. Il tema, ovviamente, richiederebbe un’analisi più approfondita, in ragione dei molteplici profili di interesse che esso sottende, non solo dal punto di vista strettamente giuridico. In questa sede, a margine delle riflessioni sopra proposte, è possibile soltanto richiamare alcuni di questi profili, ricordando, anzitutto, che alcuni dati di cronaca giudiziaria confermano un notevole aumento delle denunce per presunti fatti di malasanità [23], riferiti ai trattamenti sanitari somministrati (o non somministrati, come forse in molti lamentano) nei mesi più difficili della pandemia. La premessa da cui occorre muovere è che l’attuale normativa, in tema di responsabilità medica, non sembra adeguata a fronte delle eccezionali peculiarità della situazione emergenziale in cui i sanitari si sono trovati ad operare [24]: in questa prospettiva, l’elemento di maggior complessità è rappresentato dal fatto che molti medici hanno dovuto svolgere mansioni diverse da quelle proprie e numerosi specializzandi, in alcuni casi anche neolaureati, sono stati chiamati in prima linea per riuscire a garantire un minimo di assistenza ai pazienti nei momenti più drammatici, senza però avere la dovuta preparazione, in termini di esperienza sul campo [25]. Come forse noto, oggi, ai sensi dell’art. 590 sexies c.p. e sulla base delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione [26], il medico può andare esente da un addebito di responsabilità a titolo colposo, in relazione alle sole ipotesi di omicidio e lesioni colpose, quando la sua condotta sia stata caratterizzata da imperizia non grave, nell’esecuzione del trattamento sanitario, e quando lo stesso abbia operato nel rispetto di linee guida accreditate o buone pratiche clinico-assistenziali consolidate, adeguate alle specificità del caso concreto. Come è facile intuire, nel contesto della pandemia Covid-19, non sono presenti linee guida accreditate o buone [continua ..]
Tra le molte novità introdotte dalla “legge Lorenzin”, un rilievo particolare assume, come si è cercato di evidenziare, il Piano per l’attuazione e la diffusione della medicina di genere. L’approccio che caratterizza la medicina di genere – come ben illustrato proprio all’interno del citato Piano – è «non solo interdisciplinare e trasversale riguardando ogni branca e specialità, ma soprattutto pluridimensionale» [29]. In questa prospettiva, lo sviluppo della medicina di genere è – agli occhi dello studioso di diritto costituzionale – particolarmente importante e merita di essere sottolineato: in omaggio alla visione globale del concetto di salute che discende dalla trama dei principi posti in Costituzione, infatti, l’erogazione delle cure in tanto può dirsi appropriata in quanto costruita su una presa in carico della “persona” a 360° gradi, la quale deve essere valutata oltre che sulle caratteristiche biologiche e cliniche della malattia, anche sulla base di tutti i fattori personali, culturali e sociali che ne caratterizzano il “vissuto”. Del resto, proprio attraverso la valorizzazione delle specificità di ciascuna persona è possibile – come ricorda ancora il Piano per l’attuazione e la diffusione della medicina di genere – garantire ad ogni persona la migliore cura, rafforzando ulteriormente il concetto di “centralità del paziente” e di “personalizzazione delle terapie”, assicurando così la piena appropriatezza degli interventi, nel rispetto delle differenze di genere rese evidenti dalla letteratura scientifica fino ad oggi. Ora, la sintetica disamina sopra proposta in merito all’incidenza della pandemia Covid-19 sulla condizione delle donne e delle persone con disabilità consente di sottolineare, secondo una logica uguale ed opposta a quella testé segnalata, quanto la mancata valorizzazione delle peculiarità delle singole condizioni personali possa determinare, in concreto, gravi compromissioni nell’accesso alle cure e nell’effettiva garanzia del diritto alla salute. In questa chiave di lettura, l’accostamento tra la “legge Lorenzin”, da una parte, e la pandemia Covid-19, dall’altra, può quindi essere apprezzato proprio se si tiene a mente che l’art. [continua ..]