Rivista AIAF - Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minoriISSN 2240-7243 / EISSN 2704-6508
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Note sull'impugnazione del testamento invalido: legittimazione ad agire, prova dell'interesse e principio di non contestazione (di Luigi D’Alessandro, Giudice della VIII Sezione Civile del Tribunale di Roma)


L’ordinamento concede la possibilità di far valere in giudizio la nullità o l’annullabilità del testamento a chiunque vi abbia interesse. Legittimati ad impugnare l’atto di ultima volontà sono, in buona sostanza, coloro che possano vantare un diritto successorio in dipendenza del venir meno del testamento contestato. Per provare il proprio interesse, coloro che impugnano devono dunque dimostrare di poter beneficiare, in assenza del testamento impugnato, di un acquisto mortis causa in forza di un altro testamento ovvero sulla base di successione legittima. La prova del titolo a succedere (da cui deriva l’interesse ad impugnare) può essere data in giudizio mediante la produzione del testamento ovvero degli atti di stato civile da cui desumere l’esistenza dei rapporti familiari con il de cuius che fondano la chiamata all’eredità ex lege. Deve invece escludersi che tale prova possa raggiungersi mediante la sola assenza di contestazione della controparte giudiziale, non potendo applicarsi in questa materia il principio di cui all’art. 115, 1° comma, c.p.c.

The legal system grants the possibility of asserting in court the invalidity of the will to anyone who has an interest in it. Legitimate to contest the act of last will are those who can claim a right of succession due to the lack of the contested will. To prove their interest, those who contest must therefore demonstrate that they can benefit, in the absence of the contested will, from a purchase mortis causa under another will or on the basis of legitimate succession. Proof of the title to succeed can be given in court by producing the will or the civil status documents that demonstrate the existence of family relationships with the deceased. On the other hand, it must be ruled out that such proof can be reached through the lack of a contestation from the judicial counterpart, since the principle set out in art. 115, paragraph 1, of Code of civil procedure cannot apply in such field.

SOMMARIO:

1. La legittimazione ad impugnare il testamento nei casi di nullità o annullabilità - 2. La prova dell’interesse che sta alla base della legittimazione ad agire. Il rilievo del principio di non contestazione - 3. In particolare, la non contestazione del titolo a succedere nel caso di successione legittima: ricognizione e analisi della giurisprudenza di legittimità in materia - 4. Esigenze di rispetto del contraddittorio e art. 101, 2° comma, c.p.c. - NOTE


1. La legittimazione ad impugnare il testamento nei casi di nullità o annullabilità

L’invalidità del testamento presenta, sotto il profilo della legittimazione a dedurla in giudizio, una particolare caratterizzazione: essa può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. Ciò vale innanzitutto per i casi di nullità [1], essendo noto che tale tipologia di invalidità, anche in ambito testamentario, sia in larga parte sottoposta al medesimo statuto delineato dal codice civile per la nullità del contratto [2]: non può dunque dubitarsi che la nullità del testamento, in linea con quanto disposto dall’art. 1421 c.c., possa essere appunto invocata da tutti coloro che ne hanno interesse [3]. La stessa regola – e in questo sta l’autentico elemento di divergenza rispetto a quanto previsto in altri ambiti negoziali – opera però anche nelle ipotesi di annullabilità. Ed invero, in tutti i casi in cui il codice civile sancisce l’annullabilità del testamento o di sue singole disposizioni – al­l’art. 591, 3° comma, per il caso di incapacità di testare, all’art. 606, 2° comma, per l’ipotesi di difetti di forma non sanzionati con la nullità, e all’art. 624 allorché la disposizione sia stata effetto di errore, dolo o violenza – la possibilità di impugnazione viene espressamente concessa a tutti coloro che vi abbiano interesse, con una sostanziale assimilazione della relativa disciplina a quella dell’azione di nullità (c.d. annullabilità assoluta). Come testé accennato, tale legittimazione allargata si pone come un’eccezione rispetto al principio generale per cui l’annullabilità può essere fatta valere solo da colui nel cui è interesse è stabilita dalla legge (v. art. 1441 c.c.). Il motivo di questa peculiarità viene usualmente spiegato considerando che nel testamento manca, a differenza che nei contratti, una parte nel cui interesse l’annullabilità sia posta: venendo, infatti, in rilievo un negozio unilaterale non recettizio, non è ravvisabile una parte controinteressata. È peraltro evidente che l’interesse che può sorreggere l’impugnazione deve essere concreto, diretto ed attuale, e non meramente eventuale e futuro, di guisa che la posizione giuridica soggettiva di chi agisce sia suscettibile di ricevere un concreto ed effettivo [continua ..]


2. La prova dell’interesse che sta alla base della legittimazione ad agire. Il rilievo del principio di non contestazione

Se interessati (e legittimati) ad agire sono tutti coloro che possano vantare un diritto successorio in dipendenza del venir meno del testamento impugnato, sembra evidente che chi propone un’azione di nullità o di annullamento contro un negozio testamentario debba dar prova, innanzitutto, della fonte del vantato diritto successorio. Si tratta, quindi, di dar prova del titolo che, in assenza del testamento controverso, consentirebbe alla parte impugnante di succedere al de cuius o di conseguire comunque un più vantaggioso acquisto mortis causa. Dal momento che la successione può essere testamentaria o legittima, il titolo a succedere che va provato per dimostrare l’esistenza di un interesse ad agire è costituito o da un testamento diverso da quello impugnato, o da uno dei rapporti familiari (di coniugio, di unione civile o di parentela) con il de cuius i quali, ai sensi degli artt. 565 ss. c.c., attribuiscono la qualità di chiamati ex lege all’ere­dità [10]. La prova della delazione testamentaria potrà essere data in via documentale, quindi attraverso la produzione in giudizio della copia del testamento invocato dalla parte impugnante (salva la possibilità di ricostruire in via testimoniale il testamento che sia andato distrutto o smarrito, in presenza delle condizioni legittimanti di cui agli artt. 2724, n. 3, e 2725 c.c., comunemente ritenuti applicabili anche al testamento; e comunque tenendo conto di quanto stabilito dall’art. 684 c.c.) [11]. In caso di successione legittima, invece, il titolo a succedere andrà provato mediante la produzione dagli atti dello stato civile, dai quali è dato desumere quel rapporto di coniugio o di parentela con il de cuius che legittima alla successione ai sensi degli artt. 565 ss. c.c. (salva la possibilità, riconosciuta dall’art. 452 c.c., di provare con qualsiasi mezzo il legame familiare ove gli atti di stato civili manchino o siano andati distrutti o smarriti ovvero nel caso in cui sia stata omessa la registrazione di un atto) [12]. In buona sostanza i documenti da produrre per dimostrare l’esistenza di una delazione legittima in proprio favore saranno i certificati ovvero gli estratti per riassunto o per copia integrale dell’atto di stato civile di cui agli artt. 106, 107 e 108 del d.p.r. n. 396/2000 [13]. Non può invece considerarsi sufficiente allo scopo il [continua ..]


3. In particolare, la non contestazione del titolo a succedere nel caso di successione legittima: ricognizione e analisi della giurisprudenza di legittimità in materia

Più esattamente, l’ipotesi è quella in cui l’attore alleghi di essere titolare di un rapporto familiare con il de cuius che ne consentirebbe la chiamata all’eredità ex lege e il convenuto non neghi l’esistenza di tale rapporto. Trattasi di una situazione che si verifica assai spesso nelle controversie successorie [21]. Nell’affrontare questioni di questo genere, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato il seguente principio: l’onere di provare la qualità di erede, gravante sul soggetto che agisce in giudizio in tale veste, viene meno quando la controparte non abbia sollevato eccezioni in proposito o le abbia sollevate solo tardivamente negli scritti difensivi conclusivi, dopo aver accettato il contraddittorio senza alcuna contestazione al riguardo [22]. Stando a questo orientamento, il principio di non contestazione sarebbe senz’altro operativo nell’ambito della successione legittima, cioè, più precisamente, ogni volta che il rapporto familiare che dà titolo alla vocazione ex lege sia allegato da chi assume di essere erede e non negato dalla controparte; in altri termini, ove non sia controversa, la qualità di familiare del de cuius, quale potenziale titolo per accedere alla successione legittima, dovrebbe considerarsi provata (o comunque espunta dal thema probandum) e il giudice non potrebbe decidere in difformità rispetto a tale pacifica circostanza fattuale. Se però si passa ad esaminare la giurisprudenza della Suprema Corte in materia di successione nel processo (in particolare nei casi di riassunzione del processo interrotto e in quelli di impugnazione di sentenza emessa nei confronti di soggetto successivamente deceduto), sembra potersi ricavare, almeno fino ad un intervento delle Sezioni Unite del 2014 di cui si dirà infra, un principio completamente diverso. La giurisprudenza di legittimità ha infatti riconosciuto che in ipotesi di successione nel processo, colui che, nella asserita qualità di erede legittimo, si costituisce per la prosecuzione o impugna la decisione emessa nei confronti del de cuius, è tenuto a provare la propria qualità ereditaria mediante la produzione degli atti dello stato civile, senza che rilevi la mancata contestazione della controparte, trattandosi di questione attinente alla regolare costituzione del contraddittorio e, quindi, ad [continua ..]


4. Esigenze di rispetto del contraddittorio e art. 101, 2° comma, c.p.c.

Escluso che il titolo a succedere (testamento ovvero status personale utile per conseguire la devoluzione dell’eredità ex lege) possa ritenersi provato sulla base della mera assenza di contestazione del proprio contraddittore giudiziale, si pone poi un ulteriore problema al livello operativo: se cioè il rilievo officioso della mancanza di prova di quel titolo imponga o meno al giudice di indicare alle parti tale lacuna probatoria e di sollecitare conseguentemente il contraddittorio sul punto ai sensi degli artt. 183, 4° comma, ovvero 101, 2° comma, c.p.c. [31]. Qualunque sia la conseguenza derivante dalla predetta carenza probatoria, si ritiene più corretto dare risposta negativa a tale quesito. Certamente il giudice non sarebbe tenuto a sollecitare il contraddittorio ove si ritenga che l’assenza di prova del titolo a succedere comporti mancanza di interesse ad agire, ovverosia una conseguenza valutabile in termini di difetto di una condizione dell’azione. Propendendo per una tale qualificazione, la definizione della lite si baserebbe su una questione meramente processuale che, come tale, il giudice non ha l’obbligo di sottoporre previamente alle parti. Secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, l’art. 101, 2° comma, c.p.c. fa riferimento a quelle “questioni” (oggetto di rilievo officioso, quando non fatte oggetto della difesa delle parti) che sono idonee a comportare nuovi sviluppi della lite non presi in considerazione dalle parti, modificando il quadro fattuale. Perciò, è solo la mancata segnalazione, da parte del giudice, di una siffatta questione che determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, perché private dell’esercizio del contraddittorio (con le connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria), non anche la mancata segnalazione di questioni di esclusiva rilevanza processuale del cui controllo le stesse parti sono preventivamente onerate, dovendo avere autonoma consapevolezza degli incombenti a cui la norma di rito subordina l’ammissibilità dell’esercizio giudiziale delle domande [32]. A non diversa conclusione, però, si giunge anche qualora la mancata prova dell’interesse (inteso nel senso sopra detto [continua ..]


NOTE